La globalizzazione dell’odio
Nel marzo scorso durante la preghiera del venerdì in due moschee di Christchurch, Nuova Zelanda, un commando di quattro persone guidate da Brenton Tarrant ha assassinato 49 persone. Tarrant ha trasmesso su Facebook il massacro in tempo reale, filmando mentre sparava. “Mi sono ispirato alla strage compiuta ad Utoya, in Norvegia, da parte di Anders Breivik nel 2011. Voglio uccidere gli stranieri invasori” ha affermato. Un evento del genere oltre a metterci davanti al dramma oggettivo dell’ennesima strage realizzata dalla follia umana ci impone delle riflessioni:
Siamo davanti al più tipico esempio di globalizzazione dell’odio: una declinazione del fenomeno che supera i confini nazionali, li mitiga, ma invece di esportare una visione socioculturale di ispirazione occidentale in zone del mondo interdipendenti attivando dinamiche omologanti come direbbe Thompson, mette in campo istanze diffusive e, appunto, globalizzanti rispetto a medesimi modelli di sangue e di eliminazione fisica nei confronti di chi non si riconosce come appartenente al proprio gruppo di riferimento. Un intruso privo di legittimità esistenziale che deve, nel migliore dei casi, essere escluso e stigmatizzato come spiega Bauman.
Il fuoco populista e sovranista alimentato dal vento della politica, nazionale e internazionale, delle sue classi dirigenti, dei suoi gruppi extra-istituzionali, estremisti e suprematisti, si avvale di queste dinamiche, generando, motivando sapientemente e diffondendo quell’odio cieco e irrazionale verso l’altro. Un odio che rappresenta l’elemento unificante e catalizzatore nel conflitto che si costruisce tra “buoni e cattivi” e che si inietta come un veleno nelle menti malate e criminali di individui affetti da patologie psichiche. Un odio celato dietro valori identitari da proteggere che generano alibi, cause e sedicenti emergenze da dover risolvere e infine quasi legittima, nella mente di questi individui, azioni tanto risolute quanto violente.
La neutralizzazione della dimensione spazio-temporale indicata da Giddens e il villaggio globale di McLuhan rappresentano i parametri di riferimento per omologare anche la violenza e con essa l’omicidio che diventa prodotto di massa e, nostro malgrado, quasi un macabro intrattenimento per potenziali utenti, almeno nelle intenzioni degli assassini. Infatti, come abbiamo potuto vedere, la spettacolarizzazione della morte è diventata social, un avvenimento da condividere con altri, elidendo qualsiasi componente emozionale e tramutandosi in puro e semplice intrattenimento sia per gli autori dell’attentato sia, in alcuni casi, per coloro che dovrebbero raccontare giornalisticamente l’evento. Un iter, questo, che concretizza anche una socializzazione malata tra persone con carriere omicidiarie simili e stimola fortemente l’emulazione sotto la spinta globalizzante sopracitata.
Il dramma accaduto, oltre a paventare un ritorno a drammatici passati che ritenevamo ormai risolti sotto tutti gli aspetti, ci costringe a pensare per l’ennesima volta che la storia non insegna nulla anzi porta, con l’oblio, altro dolore, ma soprattutto ci dice quanto sia fondamentale la parola e il giudizio che accompagna: quando la politica e l’informazione parlano ad un pubblico, qualsiasi esso sia, hanno una grande responsabilità che troppe volte disattendono consapevolmente creando, in molti casi, mostri globalizzati pieni di odio.
Dott. Marino D’Amore – Sociologo