Mass media, quando la fiducia lascia il posto alla coscienza

 

MARINO D'AMORELe attuali possibilità comunicative a nostra disposizione sono suscettibili di un’impetuosa e imprevedibile evoluzione, caratteristica che costituisce la loro essenza, la loro cifra tecnico-strutturale: ad una improvvisa imposizione nello scenario comunicativo corrisponde un’obsolescenza altrettanto rapida, secondo dinamiche che seguono percorsi diversi e che riducono progressivamente il lasso di tempo che intercorre tra le due fasi. Oggi la figura  spettatoriale è mutata: l’attore passivo e inconsapevole che, fino a qualche lustro fa, guardava tv, ascoltava radio o leggeva giornali accettava i contenuti che consumava in una sorta di religiosa rassegnazione, senza mai metterli in discussione, sta scomparendo. Tale tipologia di spettatore si nutriva di essi incondizionatamente, come se provenissero da una divinità mediatico-pagana che elargiva il suo verbo ai suoi adepti, legittimato dal valore e dalla credibilità intrinseca della sua fonte. Il senso di questo modus consumandi si racchiudeva sinteticamente, ma al tempo stesso in modo esaustivo, in un’espressione che abbiamo sentito tante volte dai nostri genitori o dai nostri nonni: “lo ha detto la televisione!”. Ora non è più così, o quanto meno il sistema mediatico sta mutando rapidamente e con esso i suoi interpreti.

La spettatorialità sta abbandonando quella passività che l’ha connotata trasversalmente per abbracciare una nuova stagione che la vede attiva nel concepire e nel comprendere i propri consumi come mai in passato, all’interno di una consapevolezza che è culturale e sociale. Ovviamente una tale investitura presuppone una maggiore alfabetizzazione al panorama mediatico, anche in quello giornalistico, sia esso televisivo o meramente cartaceo, frutto di istanze autodidattiche o di corsi di studio di stampo accademico dedicati. Una tale gamma di nuove possibilità comunicative implica, tuttavia, anche nuove responsabilità nei modi e nei contenuti in cui si declinano, responsabilità che costituiscono un denominatore comune per i vecchi e i nuovi operatori del settore, contestualizzata in una sorta di deontologia sia formalizzata in regole precise sia caratterizzata da mere esigenze di buon senso, finalizzate a garantire una comunicazione puntuale, informativa, attendibile, e che risponda positivamente ai criteri di veridicità senza offendere la sensibilità degli utenti. Tale impianto regolatore non sempre viene rispettato e quando viene disatteso dà luogo ad aberrazioni comunicative esecrabili e degne di censura da un punto di vista etico-morale. Il riferimento è diretto verso tutte quelle forme d’informazione che antepongono il guadagno, il lucro e la conquista di un vasto bacino d’utenza alla missione principale per cui sono concepite: rendere edotto su un determinato argomento il destinatario del messaggio. Occorre fare un distinguo: le generazioni mediatiche maggiormente alfabetizzate a questo tipo di comunicazione sono quelle più giovani e in possesso di una proporzionale coscienza critica in grado di discriminare varie tipologie d’informazione e discernere il loro grado di veridicità.

– Quelle invece che sono più permeabili all’influenza dell’emittente e del messaggio che intende veicolare sono quelle più anziane, gli apocalittici, infatti un deficit culturale del genere comporta una minore disponibilità di codici per interpretare il messaggio stesso e una conseguente maggiore fiducia nella sedicente autorevolezza della fonte, che a sua volta investe molto e in modo consapevole, specie in alcuni tipi di giornalismo televisivo, su tale deficit.Tale è la potenza dello strumento comunicativo, una potenza declinabile in maniera benigna, secondo istanze deontologiche, o consapevolmente malevola e sensibilmente decurtata di fondamenti di veridicità. Quest’ultima risulta più vicina a quella sorta di proto-comunicazione mediatica messa in atto dai regimi totalitari del secolo scorso finalizzata alla creazione e alla stabilizzazione di un roccioso consenso popolare, vera base della loro sopravvivenza dopo l’ascesa al potere. Un giornalismo che non è libero ma diventa di regime e che come tale deve evidenziare solo gli accadimenti che contribuiscono all’apologia del regime stesso, celando i suoi insiti elementi di debolezza. Tutto deve essere finalizzato al radicamento e all’esponenziale crescita di quel potere non ottenuto democraticamente e come tale mantenuto: le notizie non devono essere vere ma funzionali a tale scopo. L’informazione, e con essa la comunicazione tout court devono essere libere oltreché conformi al reale e soprattutto coscienti dell’immenso potere che possono esercitare in diversi contesti e nei confronti dei diversi pubblici. Tale potere dovrebbe essere utilizzato responsabilmente per munire le audience di tutti gli strumenti e i codici necessari a comprendere un determinato messaggio, in modo, secondo le più disparate contingenze, quasi pedagogico, affrontando il futuro mediale con uno sguardo al passato, tentando un rinnovamento anche culturale basato sull’abbattimento di qualsiasi barriera che si opponga ad un proficuo scambio dialogico e ad un’interpretazione critica del messaggio, evitando che l’invasività dei media e la loro malcelata persuasione operata in alcuni casi sugli utenti, di influenzare quest’ultima.

La comunicazione, oggi più che mai, rappresenta un’arma molto potente nelle mani di chi può gestirla, un’arma che anche quando sembra essere giunta al suo massimo compimento, strutturale e semantico, ha ancora, insite in sé, una miriade di potenzialità pronte ad esplodere e ad imporsi in qualsiasi momento, secondo contingenze evolutive imprevedibili, fagocitando vecchie tecnologie e contenuti, relegate all’obsolescenza in breve tempo, aprendosi continuamente e con trepidante rapidità al futuro. a sua volta investe molto e in modo consapevole, specie in alcuni tipi di giornalismo televisivo, su tale deficit.

 Marino D’Amore – sociologo

 


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