CARCERE E COSTITUZIONE

               

 “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”.

carcere-di-Reggio-Calabria- esterniL’argomento da me scelto e qui in esame riguarda un tema che difficilmente raggiunge – in termini di conoscenza – il grande pubblico, ma che tuttavia credo lo riguardi ugualmente se si tiene conto che il carcere, la vita detentiva nel suo insieme e i soggetti protagonisti, non è un qualcosa che si pone al di fuori della società, bensì – piaccia o no – è parte di essa.L’ambito penitenziario è appunto parte della società per tutta una serie di ragioni qui lunghe da argomentare, che rimando ad altra pubblicazione, ma che vale la pena citarne almeno un paio: la prima è di carattere giuridico-costituzionale; la seconda, assai più spicciola ma ugualmente di interesse collettivo, riguarda i costi che la società è chiamata a farsi carico dell’intero sistema-carcere.Ebbene, per quanto attiene il presente contributo mi soffermo sul primo punto, in particolare sul concetto di pena e diritti dei detenuti, giacché secondo la disposizione di cui l’articolo 3 della Costituzione «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali». Inoltre, secondo la disposizione di cui l’articolo 27 comma 3 della medesima Carta Costituzionale «Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato».

Pertanto, la questione del contesto carcerario come all’inizio richiamato è un qualcosa che va ben oltre le inutili e strumentali dietrologie portate avanti per i più svariati interessi, e la Corte Costituzionale con le sue autorevoli decisioni non di rado è intervenuta affinché le norme di riferimento, in particolare la Legge 354/75 sull’Ordinamento penitenziario, siano adeguate ai suddetti principi di uguaglianza e «senso di umanità».L’oggetto di questo mio articolo riguarda il trattamento penitenziario riservato a quei soggetti “sottoposti al regime speciale di detenzione”, così come disposto dall’articolo 41-bis (Situazioni di emergenza) della citata Legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’Ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), in particolare le ultime due parole del seguente dettato normativo: «Saranno inoltre adottate tutte le necessarie misure di sicurezza, anche attraverso accorgimenti di natura logistica sui locali di detenzione, volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi».Arghillà-corridoio-reparto-detentivo

Ebbene, il concetto di preclusione di «cuocere cibi» all’interno delle celle per quei soggetti detenuti nelle richiamate “Situazioni di emergenza” è stata oggetto di attenzione della Consulta già nel 2011, allorquando, brevemente, dichiarò la manifesta inammissibilità delle questioni di legittimità costituzionale «in quanto carente di motivazione sulla rilevanza» (Corte Costituzionale, Ordinanza 56/2011, Camera di Consiglio del 26/01/2011, Decisione del 09/02/2011, Deposito del 18/02/2011, Pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 23/02/2011).Più recentemente, con diversa e motivata ordinanza, il Magistrato di sorveglianza rimettente ha sollevato questioni di legittimità costituzionale riguardo allo stesso tema ottenendo dalla Consulta un riscontro positivo proprio nella parte dove è indicato «cuocere cibi». Infatti, si riferisce che il detenuto reclamante ha sollevato la violazione del proprio diritto alla salute: «dovendo accontentarsi del vitto somministratogli dall’amministrazione e non potendo invece acquistare cibi da cuocere o comunque cucinare quelli di cui gli è autorizzato l’acquisto», ovvero gli è «impedito di seguire la dieta alimentare di cui avrebbe bisogno per le proprie patologie, poi specificate nel corso dell’udienza fissata per la discussione del reclamo, mediante il deposito di certificazione medica»; ponendo quindi anche una questione dal punto di vista dell’articolo 32 della Costituzione, laddove “La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”.

carcere-cella 1Sicché, dopo un’attenta disamina della questione che rimando alla lettura dell’intero provvedimento, la Consulta – dichiarando la norma costituzionalmente illegittima limitatamente alle parole «e cuocere cibi», restando peraltro assorbita la censura sollevata in relazione all’asserita violazione dell’art. 32 in tema di diritto alla salute – ha così chiosato: «non si tratta di affermare, né per i detenuti comuni, né per quelli assegnati al regime differenziato, l’esistenza di un “diritto fondamentale a cuocere i cibi nella propria cella”, come del resto osserva l’Avvocatura generale dello Stato interveniente […] si tratta piuttosto di riconoscere che anche chi si trova ristretto secondo le modalità dell’art. 41-bis [Ordinamento penitenziario] deve conservare la possibilità di accedere a piccoli gesti di normalità quotidiana, tanto più preziosi in quanto costituenti gli ultimi residui in cui può espandersi la sua libertà individuale» (Corte Costituzionale, Sentenza 186/2018, Camera di Consiglio e Decisione del 26/09/2018, Deposito del 12/10/2018).

Concludo questo mio breve e modesto contributo con la seguente citazione: «Il tempo – vissuto nel silenzio più assoluto, scandito solo dai riti della pratica penitenziaria (somministrazione di cibo, lavoro, visite istituzionali, preghiere, ecc.) – tende a dilatarsi e diventare, quindi, assoluto, coscienziale; ben presto il detenuto ne perderà la nozione oggettiva, fisica» [Melossi D. e Pavarini M. (ed. 2018, p. 276), Carcere e fabbrica, Bologna, il Mulino].

   

       arco Lilli

 Marco Lilli – sociologo e criminologo


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