Consiglio di Stato contrario all’obbligo di accettazione dei pagamenti mediante carte di credito e di debito
Tecnologia e società
Un tema quello qui in esame che ha destato non poche perplessità, e per alcuni anche preoccupazioni, vista, soprattutto, la scarsa predisposizione a prendere una certa “confidenza” con la tecnologia. Quella stessa tecnologia, ritengo, non certo intesa come pura applicazione della scienza, bensì co-determinata da fattori sociali, culturali, economici e tecnici nell’ambiente in cui essa è contestualizzata (Hatch, 2009).
Tuttavia, senza scomodare ulteriormente le teorie sociologiche dei processi organizzativi, riporto di seguito la decisione adottata dal Consiglio di Stato, Sezione Consultiva per gli Atti Normativi, di venerdì 1 giugno 2018, n. 1446 – Adunanza di Sezione del 24 maggio 2018 –, con riferimento all’obbligo di accettazione dei pagamenti mediante carte di credito e di debito.
LA SEZIONE
Vista la nota di trasmissione della relazione prot. n. 7137 del 28 marzo 2018 con la quale il Ministero dello sviluppo economico – Ufficio legislativo – ha chiesto il parere del Consiglio di Stato sull’affare consultivo in oggetto;
visto il proprio parere interlocutorio n. 1104/2018 del 23 aprile 2018 emesso nell’adunanza del 19 aprile 2018;
vista la nota prot. n. 10260 del 10 maggio 2018 del Ministero dello sviluppo economico;
MOTIVAZIONI
1.I riferimenti
Il Ministero dello sviluppo economico, con nota numero 7137 del 28 marzo 2018, ha chiesto il parere di questo Consiglio di Stato sullo schema di decreto del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, concernente il regolamento recante la definizione delle modalità, dei termini e degli importi delle sanzioni amministrative pecuniarie anche in relazione ai soggetti interessati, ai sensi dell’articolo 15, comma 5, del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221, come modificato per effetto dell’articolo 1, comma 900, della legge 28 dicembre 2015, n. 208.
Il provvedimento è stato predisposto in attuazione dei principi dettati dell’articolo 15, comma 45, del decreto – legge 18 ottobre 2012, n. 179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, n. 221 come modificato dall’articolo 1, comma 900 – 901, della legge 28 dicembre 2015, n. 208.
In particolare, il citato art. 15, comma 4, dispone che “a decorrere dal 30 giugno 2014, i soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazione di servizi, anche professionale, sono tenute ad accettare anche i pagamenti effettuati attraverso carte di debito e carte di credito; tale obbligo non trova applicazione nei casi di oggettiva impossibilità tecnica. Sono in ogni caso fatte salve le disposizioni del decreto legislativo 21 novembre 2007, n. 231”.
Lo schema di regolamento è collegato, a livello comunitario, con la direttiva (UE) 2015/2366/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 25 novembre 2015, relativa ai servizi di pagamento nel mercato interno, che modifica la direttiva 2002/65/CE nonché, in via prioritaria, con il regolamento (UE) 2015/751 del Parlamento europeo e del Consiglio del 29 aprile 2015, relativo alle commissioni interbancarie sulle operazioni di pagamento basate su carta di debito e carta di credito, in parte già attuato ed in parte da integrare con l’adozione di disposizioni attuative.
Lo schema di regolamento, di carattere innovativo, ha previsto l’estensione dell’obbligo di accettazione dei pagamenti, oltre che con carte di debito, anche mediante carte di credito.
In precedenza la materia è stata regolata con decreto del Ministro dell’economia e delle Finanze 24 gennaio 2014.
Ai sensi dell’art. 1, comma 901, della legge n. 208/2015 “dal 1 luglio 2016 le disposizioni di cui al comma quattro degli articoli 15 del decreto legge 18 ottobre 2012, n.179, convertito, con modificazioni, dalla legge 17 dicembre 2012, si applicano anche alle disposizioni di cui alla lettera f) del comma 1 dell’articolo 7 del codice della strada di cui al decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285”.
Per effetto della richiamata disposizione la disciplina è stata estesa ai dispositivi di controllo di durata della sosta, anche senza custodia del veicolo, ubicati nelle aree individuate previa deliberazione della giunta comunale e destinata al parcheggio sulle quali la sosta dei veicoli è subordinata al pagamento di una somma da riscuotere sulla base delle tariffe stabilite in conformità alle direttive del Ministero delle infrastrutture e dei trasporti.
Il comma 5 dell’indicato articolo 15 dispone che “con uno o più decreti del Ministro dello sviluppo economico, di concerto con il Ministro dell’economia e delle finanze, sentita la Banca d’Italia, vengono disciplinate le modalità, i termini e l’importo delle sanzioni amministrative pecuniarie, anche in relazione ai soggetti interessati, di attuazione della disposizione di cui al comma 4 anche con riferimento alle fattispecie costituenti illecito e alle relative sanzioni pecuniarie amministrative. Con i medesimi decreti può essere disposta l’estensione degli obblighi ulteriori strumenti di pagamento elettronici anche con tecnologie mobili”.
Il comma 5 bis del citato art. 15, con riferimento all’obbligo sancito dall’art. 5 della codice dell’amministrazione digitale di cui al decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 81 (ai sensi del quale le pubbliche amministrazioni centrali e locali sono chiamate già dal primo giugno 2016 a consentire agli utenti di eseguire con mezzi elettronici pagamento di quanto a qualsiasi titolo dovuto alla pubblica amministrazione) stabilisce che, per il conseguimento degli obiettivi di razionalizzazione e contenimento della spesa pubblica in materia informatica, e al fine di garantire omogeneità dell’offerta ed elevati livelli di sicurezza, “le amministrazioni pubbliche devono avvalersi delle attività di incasso e pagamento della piattaforma tecnologica di cui all’articolo 81, comma 2 bis, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82 e delle piattaforme d’incasso e pagamento dei prestatori di servizi di pagamento abilitati ai sensi dell’articolo 5, comma 3, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82”.
L’articolo 693 del codice di procedura penale, individuato dal Ministero richiedente come norma di riferimento ai fini della individuazione della sanzione applicabile, depenalizzato per effetto dell’articolo 33, comma 1, lettera a), della legge 24 novembre 1981, n. 689, dispone che “chiunque rifiuta di ricevere, per loro, monete aventi possono dallo Stato, è punito con la sanzione amministrativa fino a € 30”.
Lo schema di decreto in esame è corredato dalla relazione illustrativa, dalla relazione tecnica normativa (A.T.N.) e dall’analisi dell’impatto della regolamentazione (A. I. R.).
Il Ministero dell’economia e delle finanze, con nota protocollo n. 669 del 2 marzo 2018, ha espresso il formale concerto sullo schema di decreto in esame.
La Banca d’Italia, sentita sullo schema di regolamento, con nota 77471/17 del 23 gennaio 1007, ha formulato proprie osservazioni.
- Le indicazioni della relazione di accompagnamento.
In via prioritaria è stato evidenziato che l’adozione del provvedimento assume particolare rilievo nella misura in cui la previsione di specifiche sanzioni comminate in caso di mancata accettazione di pagamenti tramite carta di debito e carta di credito consente di rendere effettivo ed efficace tale obbligo.
D’altra parte, la precedente disciplina pur prevedendo l’obbligo del possesso da parte dei soggetti beneficiari degli strumenti in grado di consentire il pagamento tramite carta di debito e il conseguente obbligo di consentirne l’utilizzo agli utenti, non prevedeva alcuna sanzione in caso di mancata installazione del POS ovvero di mancata accettazione della carta di debito.
Tale carenza ha determinato, finora, la mancata applicazione dello specifico obbligo vanificando, di fatto, la previsione legislativa.
In tal modo è “risultata inevitabilmente poco limitata la possibilità di conseguire la finalità prioritaria di tale intervento normativo, ossia la diminuzione dell’uso del contante che, come già evidenziato, comporta costi della collettività derivanti dalla minore tracciabilità delle operazioni e dal conseguente maggior rischio di elusione della normativa fiscale e antiriciclaggio, e per gli esercenti, derivanti sia dalla gestione del contante sia dall’incremento del rischio di essere vittime di reati”.
La relazione, inoltre, correttamente sottolinea che la norma primaria, nel rinviare al decreto attuativo la predisposizione della disciplina in materia di modalità, termini e importo delle sanzioni amministrative pecuniarie, anche in relazione ai soggetti interessati, non ha fornito criteri e limiti specifici quali: importo minimo massimo, indicazione dell’autorità competente ad irrogare la sanzione, procedure applicabili.
Chiarisce, altresì, che la riserva di legge esistente in materia sanzionatoria (sancita a livello costituzionale per la materia penale e confermata dalla sua generale applicazione anche in materia di sanzioni amministrative dell’articolo 1 della legge 24 novembre 1981, numero 689), ha indotto il Ministero a “propendere per un’interpretazione più limitata di tale delega, coerente con il dettato costituzionale, come volta piuttosto ad individuare la sanzione applicabile fra quelle vigenti”.
Si è ritenuto, pertanto, di fare “riferimento a quanto disposto dall’ordinamento nazionale vigente, e nello specifico a quanto disposto dall’art. 693 codice penale” piuttosto che prevedere direttamente una nuova.
Il Ministero evidenzia, poi, che l’obbligo di accettazione dei pagamenti con carte di debito e carta di credito possa essere assimilato all’obbligo di accettazione della moneta legale “fisica” per cui ha ritenuto, nella predisposizione dello schema di regolamento in esame, di far riferimento, quale parametro normativo esistente, a quanto previsto dall’ordinamento nazionale vigente, e nello specifico, al dettato di cui all’articolo 693 codice penale che disciplina l’ipotesi di rifiuto di accettazione di monete aventi corso legale e, quindi, alle prescrizioni complessive attualmente applicabili.
Conseguentemente, in caso di violazione dell’obbligo di accettazione dei pagamenti con carta di debito e carta di credito troverebbe applicazione la sanzione di euro 30 come rivalutata per effetto degli articoli 38, primo comma, 113 primo comma, e 114, primo comma, della legge 24 novembre 1981, ente. 689.
Infine, la relazione sostiene che debba trovare applicazione, come effetto liberatorio, il pagamento in misura ridotta, ai sensi dell’articolo 16 della stessa legge n. 689/1981, pari a un terzo del massimo della sanzione edittale prevista per la commessa violazione.
La sanzione è stimata, comunque, “in grado di rispondere con margini di efficacia al disposto di cui alla norma primaria”, quantomeno nella prima fase di applicazione, in quanto sarebbe determinata non solo in relazione all’importo di 30 euro ex art. 693 c. p., che costituisce parametro basilare di riferimento, ma anche “in relazione al numero di pagamenti rifiutati”.
- Le finalità dello schema di regolamento.
La tracciabilità dei flussi finanziari si pone come momento centrale sia per la lotta al riciclaggio sia per la repressione dell’evasione fiscale. Ne consegue che, grazie anche alla innovazione tecnologica, uno degli effetti derivanti dalla trasformazione digitale, che si pone come pilastro di rinnovamento delle infrastrutture tecnologiche, riguarda i pagamenti e comporta la riduzione delle transazioni in contanti a favore di quelle elettroniche.
È di tutta evidenza che l’incremento dei pagamenti con moneta elettronica all’interno di ciascun Paese, nel consentire la tracciabilità dei flussi finanziari, agevoli, almeno in parte, l’emersione dell’economia sommersa con evidenti benefici sia per la riduzione della pressione fiscale sia per garantire una reale correttezza della concorrenza.
Al riguardo, sono state adottate numerose iniziative per incentivare l’utilizzo di strumenti di pagamento alternativi al contante, sia a livello europeo che nazionale, tanto da fissare, da ultimo, in euro 1.000 il limite massimo di accettazione dei pagamenti in contanti; il provvedimento, pertanto, nel favorire l’utilizzo di strumenti di pagamento elettronici, si pone l’obiettivo di promuovere lo sviluppo di un mercato concorrenziale dei servizi di pagamento nonché di pervenire ad una regolamentazione che, minimizzando al massimo ipotetici effetti distorsioni della concorrenza, abbia riguardo anche ai costi connessi all’attuazione dell’obbligo della istallazione del POS, per assicurare una riduzione delle commissioni a carico degli esercenti in relazione alle transazioni effettuate mediante carte di debito e carte di credito.
- La scheda AIR
Il Consiglio di Stato ha sottolineato in più occasioni (cfr. parere Sez. consultiva atti normativi 24 febbraio 2016, n. 515; n. 298/2018 del 5 febbraio 2018; n. 635 del 14 marzo 2018) la rilevanza cruciale della fase attuativa di ogni nuova normativa e della relativa fase di monitoraggio.
Si segnala in proposito che, anche in questa occasione, sussisterebbe la necessità di un’azione di costante monitoraggio del funzionamento delle norme regolamentari volta a verificarne l’idoneità a perseguire, in concreto, gli obiettivi fissati: ciò renderebbe necessaria anche una verifica di impatto successiva all’entrata in vigore delle nuove norme regolamentari così da identificare (e subito ridurre) eventuali oneri di comprensione, interpretazione, pratica applicazione da parte di tutti i destinatari nonché per prevenire il possibile contenzioso con interventi correttivi o di chiarimento.
Tale esigenza si manifesta, in particolare nel caso di specie, sotto differenti aspetti: verifica della effettiva deterrenza dell’applicazione della sanzione; monitoraggio del comportamento antigiuridico tenuto da imprese e professionisti obbligati alla installazione del POS.; corretta applicazione della normativa; eventuale contenzioso con riferimento sia alla competenza ad irrogare la sanzione sia alla sua entità.
Difatti, la VIR, e in generale il monitoraggio, sono indispensabili per due ragioni:
– da un lato, per verificare se il nuovo provvedimento ha effettivamente raggiunto gli obiettivi attesi, ed, in particolare, incrementato dei pagamenti effettuati con moneta elettronica (carte di debito e carte di credito);
– dall’altro, per predisporre su una base istruttoria seria e “quantitativamente informata” i più efficaci interventi integrativi e correttivi che, verosimilmente, considerata la rilevanza della materia, potrebbero rendersi necessari anche a breve distanza dall’entrata in vigore dello schema di regolamento in esame.
Nel caso in esame, la scheda A.R. è all’altezza dei propri compiti. La immediata pubblicazione del decreto, poi, sul sito del Ministero dello sviluppo economico e del Ministero dell’economia e delle Finanze sarebbero, poi, sufficienti ad assicurare con la dovuta tempestività i destinatari del provvedimento.
- Le integrazioni del Ministero,
La Sezione, avendo ravvisato la mancanza di copertura costituzionale nella soluzione prospettata dal Ministero, per i motivi integralmente richiamati nel successivo par. 6, con parere interlocutorio n. 1104/2018 del 23 aprile 2018, al fine di emettere il parere richiesto, riteneva necessario “che il Ministero riferente inoltri a questo Consiglio di Stato una compiuta relazione prospettando le soluzioni ritenute possibili per superare gli evidenziati profili di incostituzionalità della delega”.
Il citato Dicastero, con nota prot. n. 10260 del 10 maggio 2018, ha fornito ulteriori elementi di valutazione.
Innanzitutto, ha rilevato che, per effetto del disposto dell’art. 15, comma 4 e 5, del d. l. n. 179/2012 “il legislatore ha, da un lato, equiparato l’obbligo di accertare pagamenti attraverso carte di debito e carte di credito all’obbligo di accettare monete aventi corso legale, dall’altro (comma 4) ha esplicitato la volontà normativa di prevedere una sanzione specificando l’individuazione tipologica della natura della stessa all’interno delle “sanzioni amministrative pecuniarie” con l’annessa determinazione degli aspetti procedurali e dell’autorità competente, desumibili direttamente dalla legge n. 689 del 1981”.
E’ stato chiarito, poi, che l’Amministrazione ha “proceduto a redigere il testo sulla base di una lettura sistematica e complessiva delle norme ed in particolare analizzando le vigenti fattispecie sanzionatorie sul presupposto dell’equiparazione, disposta con norma primaria della mancata accettazione delle carte di pagamento alla mancata accettazione della carta moneta”.
In particolare, è stato seguito l’indirizzo giurisprudenziale secondo il quale “il principio di tipicità e di riserva di legge fissato dall’art. 1 della legge n. 689 del 1981 impedisce che l’illecito amministrativo e la relativa sanzione siano introdotti direttamente da fonti normative secondarie, ma non esclude che i precetti di legge, sufficientemente individuati, siano etero integrati da norme regolamentari, in virtù della particolare tecnicità della dimensione in cui le fonti secondarie sono destinate ad operare”.
In sostanza, si è ritenuto, sulla scorta anche dell’orientamento della Corte di cassazione (Sez. 1, sent. 2 marzo 2016, n. 4114), di poter individuare “il riferimento alle fattispecie costituenti illecito e alle relative sanzioni pecuniarie amministrative” nell’ambito “di quelle già presenti nell’ordinamento giuridici, tenendo conto del carattere relativo della riserva di legge”.
In conclusione, in considerazione anche dell’assimilazione della “moneta avente corso legale nello Stato con la moneta bancaria” (C. Cassazione, sezioni unite, sent. 18 dicembre 2007, n. 26617) e “sulla base di tali presupposti fattuali e normativi” la misura sanzionatoria “è stata individuata con quella prevista dall’art. 693 c.p.”.
- Generazioni generali
6.1 La Sezione è perfettamente consapevole che la lotta al riciclaggio ed il contrasto alla evasione ed elusione fiscale non possa prescindere dalla tracciabilità dei flussi finanziari. In tale ottica, l’attuazione della direttiva (UE) 2015/ 849, del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 maggio 2015, relativa alla prevenzione dell’uso del sistema finanziario a fini di riciclaggio o finanziamento del terrorismo internazionale, segna certamente un significativo passo avanti.
Inoltre, nonostante le significative modifiche alla vigente disciplina del settore, allineando la normativa nazionale alle più recenti disposizioni introdotte dall’Unione Europea e dalle raccomandazioni GAFI, restano ancora taluni profili meritevoli di essere disciplinati con norme primarie in quanto i danni prodotti dal riciclaggio e dall’evasione, nonostante siano fenomeni ampiamente noti da sempre, richiedono una revisione degli strumenti giuridici disponibili per un più rigoroso contrasto alla crescente diversificazione del mercato criminale.
D’altra parte, sebbene si registri una convergenza pressoché totalitaria di tutti i Paesi ad economia avanzata, il fenomeno è ancora lontano se non dall’essere completamente debellato, quanto meno ricondotto entro limiti non pregiudizievoli per lo sviluppo dell’economia legale.
Di qui la necessità di procedere all’adeguamento della disciplina interna agli orientamenti degli Organismi sovranazionali per introdurre misure che consentano di migliorare il sistema di prevenzione e contrasto.
In tale ottica, “l’approccio basato sul rischio” – di indicazione comunitaria – non rappresenta soltanto una scelta metodologica rimessa esclusivamente alla volontà dei soggetti preposti al ripristino della legalità, bensì lo strumento fondamentale per consentire, attraverso il processo di valutazione, l’adozione di procedure e strumenti in grado di riconoscere e mitigare il rischio stesso.
E’ parimenti evidente, però, quantunque le indicazioni comunitarie costituiscano una rilevante e qualificata base comune, che le specificità dei singoli Stati Membri nonché di quelli aderenti agli Organismi internazionali (ad esempio, GAFI, OCSE) impongono, a livello di ciascun Paese, la individuazione di misure specifiche che tengano conto dei rischi – variamente diversificati da Paese a Paese – cui sono esposti al fine di adeguarle alle proprie caratteristiche.
6.2. L’obiettivo di una efficace lotta al riciclaggio, all’evasione e all’elusione fiscale – da incentivare attraverso la completa perimetrazione del quadro giuridico di riferimento, anche mediante la sua omogeneizzazione – deve, però, necessariamente essere conseguito con l’adozione di provvedimenti rispettosi, sotto l’aspetto formale e sostanziale, dei principi fondamentali dell’ordinamento giuridico.
Come già evidenziato, l’assenza di un’esplicita previsione legislativa di taluni parametri necessari per la individuazione degli elementi essenziali ai fini della individuazione della sanzione da irrogare (natura giuridica, entità, competenza alla sua irrogazione, ecc.) ha indotto il Ministero dello sviluppo economico a prospettare come unico riferimento normativo “assimilabile” al rifiuto di accettazione di pagamenti con carte di debito e carte di credito la condotta considerata dall’articolo 693 c.p. e conseguente applicazione, in via estensiva, della sanzione ivi prevista sulle base delle motivazioni innanzi richiamate.
Trattasi di uno sforzo certamente apprezzabile nell’ottica di dare attuazione ad una delega finalizzata ad introdurre le auspicate misure di contrasto a comportamenti evasivi ampiamente diffusi ma certamente non condivisibile sul versante strettamente giuridico.
6.3. Ai fini della sostenibilità della menzionata scelta, invero, non può prescindersi dalla verifica della sua compatibilità con riferimento, innanzitutto, all’art. 23 della Costituzione il quale prevede che “nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”.
In merito, nell’intento di precisare gli essenziali elementi per individuare le prestazioni patrimoniali imposte che giustificano la garanzia della riserva di legge prevista dall’art. 23 della Costituzione ed i conseguenziali limiti alla discrezionalità della pubblica amministrazione, la giurisprudenza costituzionale aveva originariamente fatto riferimento solo alla natura autoritativa dell’atto che costituisce la prestazione, in quanto tale emesso indipendentemente dalla volontà del soggetto passivo.
Tale orientamento è stato successivamente ampliato per cui la natura di prestazione imposta è stata individuata anche nelle ipotesi in cui la prestazione stessa, pur nascendo da un contratto privatistico volontariamente stipulato dall’utente col titolare del bene o del servizio, e quindi dando luogo ad un rapporto negoziale di diritto privato, si riferisca ad un “servizio che, in considerazione della sua particolare rilevanza, venga riservato alla mano pubblica e l’uso di esso sia da considerare essenziale ai bisogni della vita”, sicché “il cittadino è libero di stipulare o non stipulare il contratto, ma questa libertà si riduce alla possibilità di scegliere fra la rinunzia al soddisfacimento di un bisogno essenziale e l’accettazione di condizioni e di obblighi unilateralmente e autoritativamente prefissati” (Corte Costituzionale, 10 giugno 1994, n. 236).
In merito alla portata della richiamata noma costituzionale, la Sezione è consapevole che la giurisprudenza della Corte costituzionale ha fornito una interpretazione della nozione di “prestazione patrimoniale imposta” in senso estensivo prevedendo che il carattere della riserva di legge è rispettato anche in assenza di una espressa indicazione legislativa dei criteri, dei limiti e controlli sufficienti a delimitare l’ambito di discrezionalità dell’amministrazione, purché gli stessi siano desumibili in qualche modo quali, ad esempio, destinazione della prestazione, carattere del sistema procedimentale, funzionamento dell’autorità competente, ecc.
Ed invero, ai fini dell’individuazione delle “prestazioni patrimoniali imposte” non costituiscono elementi determinanti, ma secondari e supplementari, le formali qualificazioni delle prestazioni, la fonte negoziale o meno dell’atto costitutivo, il dato empirico dell’inserimento di obbligazioni ex legge in contratti privatistici, nonché la maggiore o minore valenza sinallagmatica delle rispettive prestazioni.
Ai predetti fini va, invece, riconosciuto un peso decisivo agli aspetti pubblicistici dell’intervento delle autorità, ed in particolare alla disciplina della destinazione e dell’uso di beni o servizi, per i quali si verifica che, in considerazione della loro natura giuridica, della situazione di monopolio pubblico o della essenzialità di alcuni bisogni di vita soddisfatti da quei beni o servizi, la determinazione della prestazione sia unilateralmente imposta con atti formali autoritativi che, incidendo sostanzialmente sulla sfera dell’autonomia privata, giustificano la previsione di una riserva di legge.
Tuttavia, se è incontestabile che la riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione abbia carattere relativo, nel senso che lascia all’autorità amministrativa consistenti margini di regolazione delle fattispecie, va rilevato tale circostanza “non relega la legge sullo sfondo, né può costituire giustificazione sufficiente per un rapporto con gli atti amministrativi concreti ridotto al mero richiamo formale ad un prescrizione normativa in bianco, genericamente orientata ad un principio-valore, senza una precisazione, anche non dettagliata, dei contenuti e modi dell’azione amministrativa limitativa della sfera generale di libertà dei cittadini” (Corte Costituzionale, sent. 7 aprile 2011, n. 115).
Inoltre, per orientamento consolidato della Corte Costituzionale, l’espressione “in base alla legge”, contenuta nell’art. 23 della Costituzione , si deve interpretare “in relazione col fine della protezione della libertà e della proprietà individuale, a cui si ispira tale fondamentale principio costituzionale”; questo principio “implica che la legge che attribuisce ad un ente il potere di imporre una prestazione non lasci all’arbitrio dell’ente impositore la determinazione della prestazione” (Corte. Costituzionale sent. 26 gennaio 1957, n. 4).
Lo stesso orientamento è stato ribadito in tempi recenti allorquando la Corte ha affermato che, per rispettare la riserva relativa di cui all’art. 23 della Costituzione, è quanto meno necessaria la preventiva determinazione di “sufficienti criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa” richiedendo, in particolare, che “la concreta entità della prestazione imposta sia desumibile chiaramente dagli interventi legislativi che riguardano l’attività dell’amministrazione” Corte Costituzionale, sent. 26 ottobre 2007, n. 350).
È necessario ancora precisare che la formula utilizzata dall’art. 23 della Costituzione unifica nella previsione i due tipi di prestazioni “imposte”» e «conserva a ciascuna di esse la sua autonomia», estendendosi naturalmente agli «obblighi coattivi di fare».
Si deve aggiungere che l’imposizione coattiva di obblighi di non fare rientra ugualmente nel concetto di “prestazione”, in quanto, imponendo l’omissione di un comportamento altrimenti riconducibile alla sfera del legalmente lecito, è anch’essa restrittiva della libertà dei cittadini, suscettibile di essere incisa solo dalle determinazioni di un atto legislativo, direttamente o indirettamente riconducibile al Parlamento, espressivo della sovranità popolare (Corte cost., sent., 7 aprile 2011, n. 115).
6.4. Il principio di legalità è ribadito anche dall’art. 1 della legge 24 novembre 1981, n. 689 secondo cui “nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione.
Le leggi che prevedono sanzioni amministrative si applicano soltanto nei casi e per i tempi in esse considerati”.
La giurisprudenza, anche amministrativa, ha avuto modo più volte di precisare che allorché, con la legge 24 novembre 1981, n. 689, il legislatore ha dettato una disciplina unitaria per tutte le sanzioni amministrative, mutuando la maggior parte delle norme generali dai principi generali del diritto penale, ha sancito il principio di legalità, secondo il quale nessuno può essere assoggettato a sanzioni amministrative se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima della commissione della violazione (da ultimo, Consiglio di Stato, Sez. VI, sent., 4 aprile 2017, n. 1566), ancorché abbia considerato un solo aspetto della irretroattività e cioè quello della norma incriminatrice che sia entrata in vigore successivamente alla commissione dell’illecito.
Tale conclusine non può essere, ovviamente, superata richiamando l’orientamento della giurisprudenza, anche amministrativa, secondo cui, “in sede di applicazione dell’art. 1 della legge n. 689/1981, per le sanzioni amministrative non può trovare applicazione la regola del favor rei” (Cass. civ. 17 agosto 1998, n. 8074, Consiglio di Stato, sez. V, sent. 29 aprile 2000, n. 2544).
Proprio la formulazione del richiamato art. 1 rafforza, invece, non solo l’applicazione del principio di legalità ma anche quello del divieto dell’applicazione dell’analogia in materia di sanzioni (penali ed amministrative) di cui all’art. 1 del codice penale.
6.5. Muovendo dalle considerazioni che precedono la Sezione ritiene che l’art. 15, comma 5, del decreto legge 18 ottobre 2012, n. 179 non sia rispettoso del principio costituzionale della riserva di legge in quanto carente di qualsiasi criterio direttivo, sostanziale e procedurale.
D’altra parte, la mancanza di copertura costituzionale è, sia pure indirettamente, riconosciuta dallo stesso Ministero nella sua relazione laddove afferma che dubita che la individuazione della sanzione sia “legittimamente delegata ad un atto secondario la facoltà di introdurre nuove sanzioni in assenza di precisi criteri direttivi già contenuti nella norma primaria”.
La Sezione, non solo condivide tale rilievo, ma ritiene di doverlo estendere ulteriormente anche con riferimento alla soluzione prospettata dal citato Dicastero in quanto anche la individuazione per analogia di una sanzione – nel caso specifico quella prevista dall’art. 693 c.p. – configuri una precisa ed insuperabile violazione al principio della riserva di legge (oltre che del divieto di applicazione dell’analogia ai fini della individuazione della sanzione).
L’art. 15, comma 4, del d.l. n. 179/2012 indubbiamente enuncia, in modo chiaro, la condotta antigiuridica dei soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazioni, anche professionali, consistente nell’obbligo di accettare, a saldo del rapporto giuridico, la moneta elettronica.
Parimenti, il successivo comma 5, enuncia chiaramente i contenuti della delega (determinazione delle modalità, dei termini e dell’importo delle sanzioni).
Il Collegio, tuttavia, ritiene che la specificazione di tali elementi non sia sufficiente a soddisfare il vincolo costituzionale in materia di riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione, ancorché di carattere pacificamente relativo.
Tale caratteristica, invero, esige che la legge debba prevedere (soltanto) gli elementi essenziali della fattispecie che concorrono ad identificare la prestazione demandando, per contro, alle norme regolamentari la individuazione degli elementi non essenziali o secondari, fermo restando la specificazione di criteri e principi direttivi atti a orientare, delimitare e controllare in modo adeguato le determinazioni discrezionali adottabili in sede di completamento della disciplina.
Il Collegio ritiene che nel caso specifico, da un lato, la determinazione dell’entità della sanzione costituisca un elemento essenziale della fattispecie non integrabile su base regolamentare (non essendo sufficiente indicare il solo carattere amministrativo della sanzione); dall’altro, difettano anche i menzionati criteri e principi direttivi cui deve attenersi il potere esecutivo in sede di completamento della disciplina.
Il lodevole tentativo di dare attuazione alla delega facendo riferimento alla sanzione di cui all’art. 693 c.p. (prescindendo dall’asserita equiparazione della moneta elettronica a quella legale, in assenza di una previsione legislativa in tal senso) non può essere condiviso in quanto tale disposizione, ancorché depenalizzata, tutela un differente interesse.
Invero, l’obbligo di accettare il pagamento con carte di debito e carte di credito non è finalizzato alla tutela della moneta legale bensì alla tracciabilità dei flussi finanziari connessi all’effettuazione di cessioni di beni e prestazioni di servizio quale misura di contrasto all’evasione e al riciclaggio, e tale obbiettivo il Legislatore ha inteso perseguire introducendo una legittima regolazione dei meccanismi del libero mercato che è del tutto avulsa dalla surrettizia introduzione di un nuovo tipo di moneta.
Tali finalità impongono comunque la individuazione di una sanzione quale conseguenza di inadempimento di un obbligo legittimamente imposto ai soggetti che effettuano l’attività di vendita di prodotti e di prestazioni di servizi, obbligo, che, si ripete per chiarezza, ha attinenza alla regolazione del mercato e non della moneta. Questo Consiglio di Stato, ritiene, pertanto, che la sanzione eventualmente applicabile in caso di violazione dell’obbligo di cui all’art. 15, comma 4, del d. l. n. 189/2012 debba essere ricercata all’interno dell’ordinamento giuridico che disciplina le attività commerciali e professionali. In altri termini, nel caso in esame potrebbe trovare applicazione una già esistente norma di chiusura, prevista dal vigente quadro giuridico di riferimento, che sanzioni un inadempimento di carattere residuale. Che contempli, cioè, qualsiasi altra violazione di adempimenti legittimamente imposti nell’esercizio della arte, commercio o professione. Ed in tal senso è opportuno che il ministero prontamente si orienti per dare attuazione al ripetuto art. 15 che, allo stato, rimane inattuato.
- Conclusivamente, in considerazione di quanto sin qui esposto, nei termini e con le osservazioni sopra indicati, la Sezione esprime parere contrario a che lo schema di decreto ministeriale prosegua il suo corso.
- Q. M.
nelle considerazioni esposte in motivazione è il parere non favorevole della Sezione a che lo schema di decreto ministeriale prosegua il suo corso.
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Dott. Marco LILLI
www.marcolilli.it