Sulla libertà di culto

 

MARCO LILLIGià in altre occasioni ho avuto modo di ribadire come le istituzioni religiose – se considerate solo come agenzie di produzione di significati e non anche come forme associative aventi strutture gerarchiche e di potere come avviene in tutti gli altri sistemi sociali – hanno una funzione di mediazione dell’esperienza esistenziale, la quale funzione, già di per se, dovrebbe trascendere dall’interesse meramente ideologico-dottrinale.

Henri Saint-Simon (1760-1825), Auguste Comte (1798-1857) ed Emile Durkheim (1858-1917) tendono a considerare l’elemento religioso come un elemento universale dell’animo umano, che occorre orientare in senso funzionale alla promozione della solidarietà sociale. Mentre Max Weber (1864-1920), in termini più generali, individua la funzione originaria del pensiero religioso quale risposta agli interrogativi fondamentali della vita umana.

Fu proprio Durkheim a mettere in evidenza che una caratteristica comune a tutte le religioni è la dicotomia tra sacro e profano, e che le varie forme religiose si differenziano tra loro proprio a seconda del modo con cui tale opposizione si articola.

Infatti, per il noto pensatore, il sacro è rappresentato da tutto ciò che in qualche modo incute timore reverenziale e profondo rispetto, in quanto possiede qualità straordinarie e soprannaturali. Mentre il profano è tutto ciò che si crede faccia parte del mondo reale e non anche di quello soprannaturale, e giacché tale ha il potere di indebolire, rendere impuro e corrompere.

Evidentemente altre e diverse ragioni fanno dire prima a Sant’Agostino (354-430): Fede e ragione conducono l’uomo a una stessa identica verità, cioè Dio; poi a San Tommaso d’Aquino (1225-1274):Dove la ragione non può arrivare, interviene la fede.

Pertanto, prendendo proprio come punto di riferimento e di partenza il pensiero sociologico inerente al tema religioso, anche riguardo ai citati illustri pensatori, a mio modesto modo di vedere, credo può avere ancora più senso compiuto il dettato di cui il combinato disposto degli articoli 8 e 19 della Carta costituzionale italiana [1948], che rispettivamente così stabiliscono: [8] «Tutte le confessioni religiose sono egualmente libere davanti alla legge. Le confessioni religiose diverse dalla cattolica hanno diritto di organizzarsi secondo i propri statuti, in quanto non contrastino con l’ordinamento giuridico italiano. I loro rapporti con lo Stato sono regolati per legge sulla base di intese con le relative rappresentanze»; [19] «Tutti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume».

Anche se assai più stringente, ovvero con i dovuti distinguo di cui darò atto più avanti, perfino lo Statuto Albertino [1848] (Regno di Sardegna e Regno d’Italia), giustappunto mandato in soffitta dalla richiamata Carta costituzionale di un secolo dopo, in qualche maniera non negava del tutto la professione di culti diversi da quello cattolico cristiano, tanto è vero che al suo primo articolo sanciva: «La Religione Cattolica, Apostolica e Romana è la sola Religione dello Stato», ma: «Gli altri culti ora esistenti sono tollerati conformemente alle leggi».

Del resto, con l’articolo 8 [Costituzione], ispirandosi ai principi di parità e tolleranza, la Repubblica si impegna a tutelare la presenza e relativo esercizio sul territorio di tutte le confessioni religiose diverse da quella cattolica. Possiamo dire una sorta di richiamo al precedente articolo 3 [Costituzione]: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».

Confessioni religiose, dunque, definizione che da un lato fa riferimento a un tipo di formazione sociale dotata di una propria autonomia organizzativa con norme che perseguono unicamente finalità religiose, mentre dall’altro – sulla base del principio pluralista confessionale – riporta alla libertà di ognuno di manifestarsi in tal senso secondo il principio di eguaglianza di cui al richiamato articolo 3 [Costituzione]. Dove appunto non sono ammesse discriminazioni fondate anche sulla diversità di appartenenza religiosa e dunque libertà di culto rispetto alle scelte di coscienza di ciascun consociato.

Accennavo al pensionato Statuto Albertino, il quale secondo il principio di tolleranza verso le altre confessioni religiose proclamava quella cattolica come unica religione di Stato, mentre con l’articolo 8 [Costituzione] si va a stabilire non solo il principio del pluralismo religioso, ma anche quello tanto discusso afferente alla laicità dello Stato, il quale non rappresenta una limitazione nei confronti delle religioni giacché garantisce indistintamente medesima tutela rispetto al sentimento di culto di ogni singolo individuo.

Professare dunque liberamente la propria fede religiosa [cfr. Art. 19, Costituzione], significa esercitare – senza condizionamento o discriminazione alcuna da parte dello Stato – ogni manifestazione concernente il proprio credo, anche attraverso la libera volontà, sia essa individuale oppure collettiva, di costituirsi in associazioni secondo il principio di cui l’articolo 18 della Costituzione: «I cittadini hanno diritto di associarsi liberamente, senza autorizzazione, per fini che non sono vietati ai singoli dalla legge penale».

Non è tutto, poiché tali tutele sono garantite anche sulla base del disposto di cui l’articolo 10 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea [2000], che così stabilisce: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione. Tale diritto include la libertà di cambiare religione o convinzione, così come la libertà di manifestare la propria religione o la propria convinzione individualmente o collettivamente, in pubblico o in privato, mediante il culto, l’insegnamento, le pratiche e l’osservanza dei riti».

Nonché garantite secondo il disposto dell’articolo 18 della Dichiarazione universale dei diritti umani [1948]: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di pensiero, di coscienza e di religione; tale diritto include la libertà di cambiare religione o credo, e la libertà di manifestare isolatamente o in comune, in pubblico o in privato, la propria religione o il proprio credo nell’insegnamento, nelle pratiche, nel culto e nell’osservanza dei riti».

Tuttavia, il libero esercizio del proprio culto religioso è un qualcosa che va ben al di là del mero adempimento dei riti afferenti ad una specifica religione, infatti, esso prevede anche tutte quelle attività riconducibili in qualche misura all’opera di proselitismo religioso, nonché alla individuazione di specifici luoghi fisici da destinare a tale esercizio, per la quale realizzazione nessuna delle istituzioni pubbliche può assumere atteggiamenti discrezionali laddove siano rispettati i parametri previsti dalle norme in materia urbanistica. Si pensi ad esempio a tutta la polemica ancora attuale rispetto alla richiesta di alcune comunità islamiche di poter realizzare moschee sul suolo italiano. Il problema, di sicurezza e ordine pubblico, semmai si concretizza laddove all’interno di esse anziché professare il culto si inciti alla violenza. Ma questo è un altro discorso.

Altro esempio, sempre sulla base del principio di libera manifestazione del proprio credo religioso, può essere ricondotto all’uso (da parte delle donne musulmane) del burqa, parziale o integrale, cioè quell’indumento che nel primo caso cela il solo volto, mentre nel secondo caso oltre al volto, ne copre l’intero corpo. Da non confondere quindi, come in tanti fanno, con il semplice velo islamico, il quale lascia libero il viso.

Ebbene, nel caso dell’uso del burqa, la libertà di manifestazione religiosa pare scontrarsi in maniera palese – ed è qui che andrebbe individuata la via mediana, cioè quel ragionevole compromesso che si ispiri ai principi costituzionalmente garantiti anche in tema di sicurezza collettiva – con l’applicazione dell’articolo 5 della LEGGE 22 maggio 1975, n. 152, in materia di «Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico», che così stabilisce: «È vietato l’uso di caschi protettivi, o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo. È in ogni caso vietato l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgano in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino».

Pertanto, v’è da chiedersi: l’uso del burqa – che in realtà per le donne che lo indossano rappresenta la più volte richiamata espressione di identità religiosa – si concilia o no con la novella esaminata secondo la quale solo in caso di «giustificato motivo» la stessa viene meno?

Strumentalizzazioni politico-ideologiche a parte, è a questa domanda che dal mio punto di vista il legislatore avulso da condizionamenti personali, di partito o di altro genere è investito nel dare adeguata risposta.

Da non confondere questo e altri esempi qui narrati con la pratica, derivante sempre da orientamenti e credi religiosi, della mutilazione degli organi genitali femminili o la circoncisione, dove specie nel primo caso trova applicazione la norma regolatrice di cui la LEGGE 9 gennaio 2006, n. 7, appunto in materia di «Disposizioni concernenti la prevenzione e il divieto delle pratiche di mutilazione genitale femminile». E che l’articolo 6 del citato dispositivo normativo rimanda al dettato di cui l’articolo 583-bis del Codice penale, laddove tra l’altro stabilisce: «Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, cagiona una mutilazione degli organi genitali femminili è punito con la reclusione da quattro a dodici anni. Ai fini del presente articolo, si intendono come pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili la clitoridectomia, l’escissione e l’infibulazione e qualsiasi altra pratica che cagioni effetti dello stesso tipo. Chiunque, in assenza di esigenze terapeutiche, provoca, al fine di menomare le funzioni sessuali, lesioni agli organi genitali femminili diverse da quelle indicate al primo comma, da cui derivi una malattia nel corpo o nella mente, è punito con la reclusione da tre a sette anni. La pena è diminuita fino a due terzi se la lesione è di lieve entità. La pena è aumentata di un terzo quando le pratiche di cui al primo e al secondo comma sono commesse a danno di un minore ovvero se il fatto è commesso per fini di lucro».

La singola o collettiva libertà religiosa costituisce un diritto invocabile da qualsiasi individuo, ma tale libertà difficilmente potrà mai andare in deroga ad altri diritti dove giustappunto il bene primario giuridicamente protetto è la vita e la salute nel suo insieme. Per esempio, leggasi in combinato disposto l’articolo 32 della Costituzione italiana: «La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività»; nonché l’articolo 3 della Dichiarazione universale dei diritti umani: «Ogni individuo ha diritto alla vita, alla libertà e alla sicurezza della propria persona»; non da ultimo l’articolo 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: «Ogni individuo ha diritto alla propria integrità fisica e psichica».

Ebbene, principi costituzionali a parte, ancora oggi – per motivi facilmente intuibili, ma, dal mio conto, del tutto avulsi dal reale interesse collettivo – il legislatore dal punto di vista normativo stenta ad indirizzarsi verso una reale parità e uguaglianza fra le diverse confessioni presenti sul nostro territorio. Insomma, sembra ancora lontana una legislazione unitaria in materia di libertà religiosa a garanzia almeno dei livelli minimi di tutela verso tutte le formazioni religiose rispetto ai richiamati principi costituzionali e delle altre carte transnazionali qui citate.

Altrettanta attenta analisi – più che altro integrativa al presente contributo, della quale mi occuperò in una prossima pubblicazione –, diciamo pure più approfondita, riguarderà il delicato tema del crocifisso, inequivocabile simbolo per eccellenza della cristianità, presente nelle scuole e di cui nel corso degli ultimi anni sono state investite ad interessarsene varie giurisdizioni: dai tribunali amministrativi alla consulta. Ovverosia del contrasto palese o solo ideologico (dipende dai punti di vista) tra il concetto di laicità dello Stato e il dovere di equilibrio dello stesso Stato rispetto ad altre confessioni, minoritarie per numero di adepti, presenti sul nostro territorio.

In conclusione, l’innegabile e inarrestabile pluralismo religioso nel nostro Paese e in Occidente più in generale pone di fatto le istituzioni democratiche dinanzi a situazioni che coinvolgono concretamente la vita di ognuno, sia dal punto di vista personale che familiare; siano essi cittadini italiani o stranieri; siano essi professanti o più semplicemente credenti dell’una o altra religione; siano essi non credenti. E da qui l’esigenza, da una parte, di assicurare il diritto di libertà religiosa, dall’altra di vigilare sul corretto esercizio di tale diritto laddove improponibili propinatori di fede, dunque in nome di un improbabile entità divina, pratichino violenza contro chi essi stessi individuano come miscredenti.

Dott. Marco LILLI

Sociologo­Criminologo

www.sociologiacontemporanea.it

Rivista di Sociologia (ISSN 2421­5872)

Riferimenti bibliografici

Bagnasco A., Barbagli M., Cavalli A. (2012), Corso di sociologia, il Mulino, Bologna.

Crespi F. (2002), Il pensiero sociologico, il Mulino, Bologna.

Del Giudice F. (2015) (a cura di), Costituzione esplicata, Simone, Napoli.

Pace E. (2014), Introduzione alla sociologia delle religioni, Carocci, Roma.


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