CALAMANDREI E LA COSTITUZIONE
I discorsi di Piero Calamandrei (1889-1956): tanto datati, quanto attuali. Sembra come se il tempo non fosse mai trascorso dagli anni della neonata Repubblica ad oggi e, purtroppo credo, anche per lungo tempo ancora. Come a dire: rileggere il passato per capire il presente, cioè tentare di comprendere perché molti degli attuali problemi sociali sono ancora senza soluzione.
Per esempio, era il 4 marzo 1947, quando nella seduta pomeridiana dell’assemblea costituente prese parola il noto giurista esordendo, rivolto ai colleghi: «parlare in quest’aula con quei banchi vuoti dà un senso di disagio. Non c’è il Governo; non si può dir male del Governo […] Pare quindi che ci manchino i temi di conversazione […] Ma, d’altra parte, questo dà anche un certo senso di serenità, e direi quasi di raccoglimento familiare».
L’oggetto in discussione era di notevole rilevanza, soprattutto, almeno dal punto di vista di Calamandrei, per gli anni a seguire. L’intervento solleva molti dubbi sul contrasto tra l’elaborare un testo costituzionale e la sua reale applicazione nel quotidiano. Si trattava infatti del Progetto di Costituzione.
A questo proposito mi torna alla mente la frase attribuita al politico italiano Massimo D’Azeglio (1798-1866), quando nel 1861 disse: «Abbiamo fatto l’Italia. Ora si tratta di fare gli italiani», come ad evidenziare la necessità di invertire rotta rispetto alla decadenza tipica italiana e creare persone migliori, ovverosia educare loro al principio di responsabilità e onestà, vale adire a comportamenti diversi rispetto ad allora.
Ebbene, seppur con i dovuti distinguo, qualcosa di simile ho piacere di trarlo dalle parole di Calamandrei quando fece riferimento al giornalaio che gridava per le strade: «Terza edizione! La grande vittoria degli italiani […] ma poi aggiungeva, in tono più basso […] non è vero nulla […] Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi […] Non è vero nulla».
Emblematico quest’ultimo periodo: «Bisogna evitare che nel leggere questa nostra Costituzione gli italiani dicano anch’essi […] Non è vero nulla». Infatti, osservo, se nelle parole di D’Azeglio emerge senza ambiguità che l’italiano andava educato alla nuova condizione politico-sociale data dall’unità d’Italia, nelle parole di Calamandrei, almeno a mio avviso, è l’educatore, cioè lo Stato, a stabilire delle linee guida certe e realmente applicabili affinché l’educando, cioè il cittadino, non potesse poi con ragionevole sicumera additare lo Stato – diciamo quindi le istituzioni nella loro interezza – di inefficienza e scarsa credibilità (come peraltro oggi avviene).
Pertanto, come la nascita dello Stato italiano segnava non tanto un punto d’arrivo bensì un punto di partenza di un lungo cammino che portasse gli italiani in direzione della più avanzata civiltà europea (Vivarelli, 2004); allo stesso modo, la redazione di un testo costituzionale non doveva essere inteso solo come una degna risposta alle atrocità dei regimi totalitari del noto ventennio che condussero al secondo conflitto mondiale, ma doveva essere soprattutto una linea indelebile da seguire per i secoli avvenire all’indirizzo del rispetto e salvaguardia dei diritti inalienabili dell’individuo.
Attualissimo, sempre dal mio punto di vista, così come altrettanto emblematico, è il riferimento di Calamandrei alla laicità (presunta, mi permetto di aggiungere) della neonata Repubblica.
Orbene, a quest’ultimo proposito, tenuto conto che il discorso di Calamandrei qui in parte esaminato fa riferimento ai lavori preparatori della Carta costituzionale (1946-47) – ricordo, entrata in vigore il 1° gennaio 1948 –, e dunque che gli articoli citati dal giurista non necessariamente corrispondono poi a quelli del testo definitivo, egli afferma: «Si capisce che l’articolo 5 dica che lo Stato italiano – il soggetto della Costituzione – riconosce, se la vuol riconoscere, la sovranità della Chiesa nel suo ordine. Ma non si capisce che la Chiesa riconosca la sovranità dello Stato, la quale sovranità è il presupposto di questa Costituzione […] se non ci fosse la sovranità, neanche potremmo darci la Costituzione».
Prosegue, sempre più convincente, Calamandrei: «Questo è un articolo che potrebbe andare bene in un trattato internazionale, non in una Costituzione. Ma è principalmente contro il secondo comma che si appunta la mia osservazione […] I loro rapporti sono regolati dai Patti Lateranensi. Qualsiasi modificazione dei Patti bilateralmente accettata, non richiede procedimento di revisione costituzionale […] Qui, intanto, si potrà osservare, quando si parlerà dei modi di revisione della Costituzione, che vi sarebbero in essa, se l’articolo restasse così, norme costituzionali che non potrebbero essere più modificate per volontà unilaterale dello Stato che ha fatto questa Costituzione. Vi sarebbero norme modificabili soltanto se vi sarà il consenso di quest’altro contraente che è la Chiesa; ma questa sarebbe una vera e propria rinunzia ad una parte della nostra sovranità».
D’accordo, non vi è dubbio che da quel progetto costituzionale all’attuale Carta del 1948 delle diversità vi sono, così come modifiche sono state apportare ai Patti Lateranensi con l’accordo del 18 febbraio 1984, reso esecutivo con la legge 25 marzo 1985, n. 121, ma, mi permetto di osservare, forti ingerenze sulla politica italiana da parte della Chiesa sono sempre attuali e significative su molteplici decisioni del nostro legislatore.
Ancora Calamandrei: «Un giornale di New York, il New York Times […] riferiva che il 21 gennaio 1947, mentre il Presidente De Gasperi era in America, i delegati di 25 gruppi religiosi protestanti, rappresentanti di 27 milioni di credenti, andarono a domandargli se fosse vero che il testo dei Patti Lateranensi sarebbe stato inserito nella Costituzione, e il Presidente De Gasperi avrebbe risposto che non credeva che i Patti Lateranensi vi sarebbero stati inseriti. Diceva la verità, perché i Patti Lateranensi non vi sono stati inseriti in maniera espressa; vi sono stati soltanto richiamati per implicito. Ma, attraverso questo richiamo, attraverso questo rinvio, attraverso questo assorbimento dei Patti Lateranensi nella Costituzione […] si arriverà a questa conseguenza […] che per potere intendere quale sarà la vera portata della nostra Costituzione bisognerà che il lettore avvertito vi inserisca al punto giusto, come se fossero scritte nella Costituzione stessa, molte disposizioni prese dal Trattato o dal Concordato. Non saranno scritte sulle righe, ma fra le righe; e bisognerà leggerle, diciamo così, per trasparenza».
Inoltre: «Ma qui io sento suggerimenti provenienti specialmente di là (accenna a sinistra), che mi dicono […] Ma questo non è un discorso politico; questo è un discorso ingenuo […] chiarezza e politica non vanno d’accordo. Anche Napoleone diceva che le Costituzioni è bene siano brevi ed oscure […] Sì, in verità la nostra, molto breve non è; ma in quanto ad oscura, riesce ad esserlo in più di un punto! […] Questi stessi amici aggiungono […] Anche la Costituzione è il risultato di un compromesso politico. La politica è l’arte dei compromessi, delle transazioni. Per ora, formule elastiche […] e poi si vedrà chi tirerà di più».
Prosegue il giurista: «Ora io devo prima di tutto riconoscere […] che io non sono un politico. A me piace di dire le cose chiare. Questo può essere contrario alla politica, ma d’altra parte ognuno porta il contributo che può in queste discussioni. Io mi permetterei però di domandare a questi amici che mi danno siffatti suggerimenti […] Credete, voi che vi intendete di politica, che sia proprio una buona politica quella consistente, quando si discute una Costituzione, nel presupporre sempre che in avvenire il proprio partito avrà la maggioranza, e nel disinteressarsi, in tale presupposto, della precisione e della chiarezza tecnica dei congegni costituzionali? Voi mi dite che l’essenziale è che vi siano nella costituzione i congegni per far prevalere sempre la volontà del popolo […] ma siete proprio sicuri che il popolo, ossia gli elettori, daranno la maggioranza a voi, e che quindi, poiché voi avrete la maggioranza, la Costituzione sarà sempre interpretata a modo vostro?».
E ancora: «Nel discutere di questi argomenti io ho sempre sostenuto che, per preparare il testo di una nuova costituzione democratica, sia più opportuno e più prudente muovere dal punto di vista della minoranza […] di quella che potrà essere domani la minoranza, in modo che le garanzie costituzionali siano soprattutto studiate per difendere domani i diritti di questa minoranza. Il carattere essenziale della democrazia consiste non solo nel permettere che prevalga e si trasformi in legge la volontà della maggioranza, ma anche nel difendere i diritti delle minoranze, cioè dell’opposizione che si prepara a diventare legalmente la maggioranza di domani».
Avviandosi verso la conclusione del proprio intervento: «Vedete, colleghi, bisogna cercare di considerare questo nostro lavoro non come un lavoro di ordinaria amministrazione, come un lavoro provvisorio del quale ci si possa sbrigare alla meglio […] Se noi siamo qui a parlare liberamente in quest’aula […] è perché per venti anni qualcuno ha continuato a credere nella democrazia, e questa sua religione ha testimoniato con la prigionia, l’esilio e la morte. Io mi domando […] come i nostri posteri tra cento anni giudicheranno questa nostra Assemblea Costituente […] se la sentiranno alta e solenne come noi sentiamo oggi alta e solenne la Costituente Romana, dove un secolo fa sedeva e parlava Giuseppe Mazzini. Io credo di sì […] credo che i nostri posteri sentiranno più di noi, tra un secolo, che da questa nostra Costituente è nata veramente una nuova storia […] e si immagineranno, come sempre avviene che con l’andar dei secoli la storia si trasfiguri nella leggenda, che in questa nostra Assemblea, mentre si discuteva della nuova Costituzione Repubblicana, seduti su questi scranni non siamo stati noi, uomini effimeri di cui i nomi saranno cancellati e dimenticati, ma sia stato tutto un popolo di morti, di quei morti, che noi conosciamo ad uno ad uno, caduti nelle nostre file, nelle prigioni e sui patiboli, sui monti e nelle pianure, nelle steppe russe e nelle sabbie africane, nei mari e nei deserti […] nelle quali l’eroismo è giunto alla soglia della santità […] Essi sono morti senza retorica, senza grandi frasi, con semplicità, come se si trattasse di un lavoro quotidiano da compiere: il grande lavoro che occorreva per restituire all’Italia libertà e dignità. Di questo lavoro si sono riservata la parte più dura e più difficile; quella di morire, di testimoniare con la resistenza e la morte la fede nella giustizia. A noi è rimasto un compito cento volte più agevole; quello di tradurre in leggi chiare, stabili e oneste il loro sogno: di una società più giusta e più umana, di una solidarietà di tutti gli uomini, alleati a debellare il dolore. Assai poco, in verità, chiedono a noi i nostri morti. Non dobbiamo tradirli».
Ebbene, nel rimandare al testo integrale del discorso pronunciato da Calamandrei, concludo affermando, con ragionevole convinzione, che fin troppi tradimenti sono stati attuati in questi primi settant’anni di Repubblica all’indirizzo del Popolo sovrano!
Dott. Marco LILLI
SociologoCriminologo
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Rivista di Sociologia (ISSN 24215872)