MEDIA,VIOLENZA E “CULTURA DELLA CELEBRITÀ” NELLA NARRAZIONE MEDIALE DEL SOCIALE
La violenza generalmente, all’interno di contesti sociali, è caratterizzata da una “oppressione relazionale durevole” ( Bartholini,2015) , dove si fanno uso di strategie comunicative e comportamentali che mirano al dominio dell’altro, al totale controllo della vittima facendo perno appunto sull’oppressione. Se poi la violenza si evolve e va intrecciarsi con fenomeni criminali specifici e complessi come quello del terrorismo, l’analisi si amplia ancora di più, in particolar modo se si riconosce che, all’interno di tali categorie dell’agire umano, il processo di comunicazione-relazione ha un ruolo preponderante che è necessario analizzare e riconoscere.I new media hanno rivoluzionato le relazioni, l’informazione e le modalità con cui comunichiamo tra noi e il mondo esterno. Il web, i social network ci hanno resi tutti cittadini attivi all’interno di uno spazio virtuale dove riceviamo notizie in tempo reale, le discutiamo, le confrontiamo, le condividiamo e approfondiamo senza limiti di tempo e spazio. La criminalità e la violenza oggi sono ancora in testa nell’agenda mediatica: cambia però la narrazione delle notizie.Sono i crimini violenti a dominare l’agenda dei reati, meno rappresentati sono i reati ansiogeni e diffusi come furti e rapine, più presenti nell’informazione locale. Nella nuova società 2.0 è necessario considerare tutti questi aspetti ed approfondire tale analisi proprio in seguito alla nascita di nuove forme di comunicazione e tecnologie, di nuovi attori e spettatori che creano e/o subiscono tale processo cognitivo-comunicativo, costruendo o subendo un’informazione sempre più concentrata a “spettacolarizzare la morte e la violenza”.
Inoltre, qualsiasi barriera oggi tra privacy, violenza, identità delle vittime o di un criminale, immagini o notizie su minori, sembra essere abbattuta: niente più limiti e tutele.Il fatto che si stia vivendo in una società tecnologia e violenta, dell’immagine e dell’esibizionismo ce lo dimostrano gli ultimi attacchi terroristici o casi di violenza domestica nel mondo, dove concluso l’atto violento segue il famoso selfie da parte dell’autore del reato con la vittima, condiviso poi pubblicamente sui social network per una necessità “patologica” di visibilità. Ecco che il contenuto mediale diventa “atto criminale e scena di un crimine” ora pubblica, visibile ed accessibile a tutti virtualmente. Per il criminologo David Garland, in particolare le società inglese ed americane, sono divenute oggi “società ad elevata criminalità”, nel senso che sono caratterizzate non da un effettivo aumento del crimine, ma ciò che è aumentata è la percezione della criminalità e dell’insicurezza dei cittadini. Ciò, afferma Gardland, è dovuto al troppo peso che i media attribuiscono al crimine nella loro narrazione del sociale; alcuni crimini diventano “crimini segnale”, ovvero un indice della stato di una società e dell’ordine sociale. I media non inventano i crimine ma spettacolarizzano il sociale in modo regolare e questo modo di fare giornalismo ha “istituzionalizzato” l’esperienza della criminalità ed ha portato il pubblico ad esibire in Rete le proprie emozioni, quasi affascinato dal “Male” L’attenzione dei media sui crimini e sul criminale rischiano seriamente di trasformare quest’ultimo in una “celebrità”, in un modello esemplare per noi.
I media hanno bisogno di questo dal momento che il colpevole, la vittima, la scena del crimine acquistano un valore sempre più “economico”, ma il vero rischio, come sostiene il pedagogista americano Henry Giroux, è che prevalga sempre più una “cultura della crudeltà” in seguito non solo alla spettacolarizzazione, ma ad una “raffinata de-selezione di ciò che vediamo”. La violenza in tv e in Rete diventano quotidiane narrazioni trans-mediali che forse garantiscono con facilità una semplice entrata nel mondo della micro-celebrità: tutti siamo pubblici, tutti possiamo condividere e accedere ai contenuti, tutti acquisiamo improvvisamente valore, significato per l’ambiente socio-virtuale in cui ci muoviamo, giocando con le nostre identità multiple.
Dott. Giacomo Buoncompagni
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