EDUCAZIONE EMOTIVA E ANALFABETISMO EMOZIONALE

 

SONIA ANGELISI 9 agosto 2015A seguito dell’interessantissimo seminario su “Cyberbullismo, simbologia e comunicazione” tenuto dall’Associazione Sociologi Italiani al Palazzo della Cultura “Pasquino Crupi” di Reggio Calabria il 13 maggio 2016,  mi piacerebbe intervenire sul tema aprendo una riflessione sul versante emozionale in relazione ai fenomeni di bullismo.

Per grandi linee, possiamo iniziare dicendo che i cosiddetti bulli spesso hanno disturbi nella regolazione e gestione delle emozioni, da cui deriva l’impulsività. Soffrono maggiormente di instabilità emotiva, crisi di umore e di rabbia che tendono  a risolvere con comportamenti impulsivi, distruttivi e prevaricatori. Una delle loro più gravi difficoltà consiste nell’oscillazione tra l’inibizione delle emozioni e il rimanerne sopraffatti, sintomatico di una scarsa consapevolezza dei propri stati mentali. Questa è la punta dell’iceberg di un disagio che merita di essere approfondito e analizzato. Con il termine bullismo, traduzione italiana dell’inglese “bullying”, definiamo un insieme di comportamenti con i quali qualcuno compie ripetutamente azioni o affermazioni per avere potere su un’altra persona o per dominarla.

“Il bullismo è una sottocategoria del comportamento aggressivo, ma è un tipo di comportamento aggressivo particolarmente cattivo, in quanto è diretto, spesso ripetutamente, verso una vittima particolare che è incapace di difendersi efficacemente, perché è più giovane, o meno forte o psicologicamente meno sicura” (Fonzi, 2006).

Rispetto ai normali conflitti fra coetanei, quindi,  il bullismo si distingue per la presenza di elementi precisi:

 

  • presenza di un persecutore (in posizione up) e di una vittima (in posizione down);
  • intenzione, da parte del persecutore, di nuocere alla vittima con totale mancanza di compassione verso di essa;
  • durata prolungata nel tempo degli atti persecutori con conseguente diminuzione dell’autostima da parte della vittima;
  • posizione di potere e prevaricazione da parte del bullo;
  • posizione di vulnerabilità da parte della vittima, che non è in grado di difendersi da sola ed è in una situazione di totale isolamento e mancanza di sostegno da parte degli altri membri del gruppo;
  • senso di paura e inadeguatezza, ansia e insicurezza da parte della vittima;
  • Sconvolgimento emotivo nella vittima che potrebbe, a sua volta, divenire bulla nei confronti di soggetti più deboli. Il bullismo, infatti, è terreno culturale e sociale favorente l’evoluzione di comportamenti devianti e delinquenza;
  • gli spettatori, che spesso sono indifferenti a quanto accade e, proprio per questo, corresponsabili.

Il bullismo non è un problema solo per la vittima, ma si rivela un disagio anche per tutte le persone che assistono a questi comportamenti, per il clima di tensione  e di insicurezza che si instaura.I possibili interventi di educazione e prevenzione al bullismo possono essere diversi e riguardare anzitutto la sfera emozionale e comunicativa:

  • Educare al “sentimento” che ci consente di distinguere cosa sia il bene e cosa il male;
  • Educare a comportamenti di accettazione, solidarietà e collaborazione;
  • Insegnare a comunicare, in un’ottica di educazione alla pace e di prevenzione del disagio;
  • Dare obiettivi di crescita intellettuale, che producano convinzioni sulle proprie capacità, incoraggiando, valorizzando l’impegno e lo sforzo;
  • Educare a comportamenti corretti nei vari ambiti sociali e all’uso di registri linguistici adeguati;
  • Educare alla gestione del conflitto;
  • Mettere in atto comportamenti di autonomia, autocontrollo, fiducia in sé;
  • Accettare, rispettare, aiutare gli altri e i diversi da sé, comprendendo le ragioni dei loro comportamenti;
  • Attivare atteggiamenti di ascolto, conoscenza di sé e di relazione positiva con i compagni e con gli adulti;
  • Imparare ad esprimere verbalmente e fisicamente la propria emotività ed affettività.

L’educazione emotiva è fondamentale già a partire dai primissimi anni dell’infanzia. Il noto filosofo e sociologo Umberto Galimberti si è riferito ai giovani e alle loro capacità empatiche ed emozionali, come a soggetti divenuti  “analfabeti emozionali” in una società in cui la razionalità assoluta non lascia più spazio a pulsioni e passioni. Secondo Galimberti, deve esserci necessariamente un’educazione ai sentimenti che deve cominciare in tenerissima età, proprio perché i sentimenti non si trasmettono geneticamente né rientrano nella categoria delle pulsioni biologiche. I sentimenti si apprendono e questo processo di apprendimento si realizza attraverso la costruzione di mappe emotive,  le quali consentono a loro volta la costruzione di relazioni sane ed equilibrate. Quando e chi compone queste mappe emotive? Le mappe emotive si formano attraverso la cura che i bambini ricevono sostanzialmente nei primi tre anni di vita e servono a sentire il mondo e a reagire agli eventi in modo proporzionato. Afferma Galimberti:

“Se nei primi tre anni di vita i bambini non sono seguiti, accuditi, ascoltati allora ci si trova di fronte ad un misconoscimento che crea in loro la sensazione di non essere interessanti, di non valere niente.  Crescono così senza una formazione delle mappe cognitive, rimanendo a un livello d’impulso. Gli impulsi sono fisiologici, biologici, naturali. Il passo successivo dovrebbe essere di passare dagli impulsi alle emozioni ovvero a una forma più emancipata rispetto all’impulso. L’impulso conosce il gesto, l’emozione conosce la risonanza emotiva di quello che si compie e di quello che si vede. Poi si arriva al sentimento che è una forma evoluta, perché non solo è una faccenda emotiva, ma anche cognitiva. Il sentimento si apprende. Le mamme comprendono i bambini che non parlano perché li amano. Gli amanti, proprio perché si amano, si capiscano tra loro molto più di quanto i loro discorsi non dicano e siano comprensibili agli altri. Il sentimento è cognitivo e consente di percepire il mondo esterno e gli altri in maniera adeguata, con capacità di accoglienza e di risposta adeguate alle circostanze.”[1]

Il sentimento, dunque, si acquisisce culturalmente e spesso è stata la letteratura il luogo metaforico in cui si sviluppava tutta la fenomenologia dei sentimenti umani, dalla gioia al dolore, dalla disperazione alla noia. Se queste mappe cognitive emotive non si formano, la maturazione sentimentale dei ragazzi  si blocca e rimarranno fermi ad un livello di pulsione che è ancora inferiore a quello di emozione. A conferma di quanto detto, la sociologia delle emozioni opera già una distinzione a livello emozionale: le emozioni primarie (gioia, tristezza, rabbia, disgusto, interesse, paura) compaiono presto non presupponendo un’attività cognitiva, non si basano quindi sulla coscienza di sé; le emozioni secondarie (vergogna, senso di colpa, orgoglio empatia, simpatia, rimpianto) implicano un’autocoscienza, presuppongono cioè una riflessione su di sé. (Cattarinussi, 2006).

I genitori sono i primi a gettare le fondamenta di queste mappe emotive. La famiglia è definita dalla sociologa Chiara Saraceno come:

“lo spazio insieme fisico, relazionale, simbolico apparentemente più noto e comune, al punto da essere usato come metafora per tutte quelle situazioni che hanno a che fare con la spontaneità, con la naturalezza, con la riconoscibilità senza bisogno di mediazioni; la famiglia si rivela uno di quei luoghi privilegiati di costruzione sociale della realtà[2]”.

La famiglia varia nel tempo e nelle culture e le relazioni familiari sono variabili nel tempo e nello spazio, tanto da definirla un gruppo sovrafunzionale perché assolve ad una molteplicità di funzioni sociali implicando tutte le dimensioni dell’esistenza umana (biologiche, psicologiche, economiche, religiose, giuridiche) (Di Nicola, 2006). Diversi studi sociologici hanno fotografato la metamorfosi della tipologia famigliare nella società postmoderna, evidenziando come la famiglia di oggi appare ridotta numericamente (famiglie uni-personali, mono-genitore), variegata (famiglie ricostituite, multietniche, di fatto). I bambini sono esposti a continue mutazioni delle situazioni familiari e con la moltiplicazione di regole e valori, l’istituzione familiare non è più in grado di garantire una socializzazione primaria universalmente omogenea. Intervengono figure significative esterne alla famiglia (baby-sitter, educatrici scuola materna), i tempi diventano frenetici anche per i piccoli impegnati in mille attività e senza avere il tempo di imparare cos’è l’ozio, la lentezza, la noia. Anche i bambini vengono bombardati da messaggi pubblicitari che inneggiano al consumo e a modelli standardizzati e inarrivabili di successo e perfezione, sviluppando narcisismo e competizione. Tutto ciò amplifica un senso di disorientamento emotivo.

“David Cooper, psichiatra britannico, in una delle sue opere più celebri La morte della famiglia, decretava la fine della sua funzione tradizionale di supporto, di guida, di luogo solidaristico, affettivo e formativo per eccellenza (…) generando una crisi profonda di identità, con fasi di disorientamento e smarrimento che l’hanno resa instabile, isolata. (…) Questa famiglia postmoderna di impronta individualistica, presenta il rischio di una maggiore instabilità rispetto al passato. Beck (2000) ha definito il matrimonio un’impresa rischiosa e Bauman (2006) ha inventato l’espressione amore liquido per sottolineare la fragilità dei legami affettivi nella società di oggi. Tuttavia, secondo l’opinione di autorevoli studiosi, questi mutamenti non dimostrano la fine della famiglia, ma al contrario la sua capacità di adattarsi ai cambiamenti sociali.[3]

La famiglia rimane l’unico baluardo a difesa di una società sempre meno solidale e, per certi versi, disumanizzante. A maggior ragione, il ruolo dei genitori resta fondamentale nella costruzione di una sensibilità per la prole, nonostante i ritmi frenetici impongano una assenza prolungata e la delega dell’educazione a figure esterne.

Col passaggio del bambino in età scolare saranno sempre più la scuola, gli insegnanti e gli educatori i soggetti a cui è affidato il delicatissimo compito di proseguire nella corretta costruzione di queste mappe emotive, trasferendo nozioni e conoscenze stimolando, in primis, la passione per l’apprendimento. Provare gioia nell’imparare creerà i presupposti per una comprensione profonda. E’ come se si attraversasse il cuore per arrivare alle teste, innescando un forte coinvolgimento. Continua Galimberti:

“Se le mappe emotive non si formano abbiamo un rapporto squilibrato, una risonanza emotiva inadeguata  rispetto agli eventi da affrontare. Prendiamo un esempio tra i casi patologici degli ultimi anni. Il giorno in cui Erika e Omar[4] uccisero la madre e il fratellino, si recarono, come ogni giorno, a bere la birra al bar del quartiere. Questa reazione è la conseguenza della mancata presenza di mappe emotive e di risonanza di quanto accaduto. Mancanza che non ha consentito loro di riconoscere la differenza tra bene e male. Il filosofo Immanuel Kant diceva che la definizione di bene e male possiamo anche non definirla perché ognuno la comprende e la sente da sé. Usa proprio la parola sentire, e se la differenza tra bene e male non si sente e non si percepisce rischiamo che un ragazzo non capisca la differenza che c’è tra corteggiare una ragazza o stuprarla, o tra discutere con il professore e prenderlo a calci. Non sentire più la differenza tra bene e male, tra il giusto e l’ingiusto, tra ciò che grave e ciò che non lo è, denota una mappa emotiva non costituita.”[5]

E’ in questo modo che dalla mancanza di empatia si passa all’apatia, con l’estinzione di emozioni e desideri.

Tornando ai fenomeni di bullismo, nelle sue forme più gravi o persistenti nel tempo il bullismo investe fondamentalmente le emozioni di ostilità, di rabbia (emozione primaria che non passa per un’analisi cognitiva), di violenza, gli atteggiamenti di dominio nel gruppo; in chi agisce prepotenza  la ricerca di identità e di legame affettivo non può, per varie ragioni, avvenire con modalità propositive, ma avviene attraverso la prevaricazione. Risolvere propositivamente i conflitti sociali, comporta il saper affrontare anche le emozioni di rabbia, di tristezza, di solitudine, il senso di incapacità, il senso di fallimento; significa affrontarle condividendole con i bambini ed i ragazzi, non tanto e non solo discuterne razionalmente, ma sentirle insieme, per poterli accompagnare, in una specie di tutoraggio indiretto,  in un percorso che li renda capaci di tollerarle, di viverle pienamente, di esprimerle in modi propositivi, senza rinunciare ad esprimere la propria individualità, ma trovando i necessari compromessi tra le proprie esigenze e quelle degli altri. Il “sentire”, dunque,  è la capacità precipua da sviluppare in una società anestetizzata. Al di là, infatti, delle definizioni tecniche, sociologiche e storiche del bullismo, è indubbio che esiste una violenza insita nell’essere umano, probabilmente ancestrale, che nell’attuale società è fin troppo amplificata dai mezzi di comunicazione di massa. Ricercare il sensazionalismo da parte dei media nelle storie di bullismo, è un altro di quegli aspetti che conferisce una risonanza immeritata ed equivoca a questo fenomeno violento e prevaricatore, che mette in ombra i tanti esempi positivi di una gioventù ricca di virtù e propositiva[6].

Ecco, allora, come l’educazione emotiva si rivela un percorso necessario. E’ importante avviare i bambini fin dai primi anni della scuola primaria ad un percorso, strutturato in base all’età, di conoscenza e di scoperta di sé, delle proprie sensazioni, di accettazione e di rielaborazione delle proprie emozioni, di analisi dei propri comportamenti. Allo stesso modo, è possibile insegnare a contenere e a tollerare, senza espellere le emozioni in comportamenti impulsivi; maturare cioè la capacità di guardare le emozioni dolorose e sopportarle, senza agire necessariamente d’impulso.

Secondo Jung la coscienza di sé è il vero scopo della vita e solo se si è coscienti di sé, si può pensare di assumere dei comportamenti diversi e delle modalità di comunicazione e di relazione positive. La consapevolezza e il riconoscimento di un episodio di prepotenza, nel caso del bullismo, è il primo passo del lungo cammino verso la soluzione  del problema, imparando ad accettare le proprie debolezze senza mascherarle con atti di forza e violenza, e instaurando una relazione empatica con l’altro in un mutuo bisogno di riconoscimento e accettazione.

 

 

Sonia Angelisi – Sociologa – Dirigente nazionale Associazione Sociologi Italiani

[1] http://wisesociety.it/incontri/umberto-galimberti-la-nostra-societa-ad-alto-tasso-di-psicopatia-non-e-adatta-a-fare-figli/

[2] Saraceno C., Psicologia della famiglia, Il Mulino, Bologna, 1996.

[3]Pini G. “Genitori nella rete del bullismo”, Armando Curcio Editore, Roma 2012.

[4] Il delitto di Novi Ligure (https://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_di_Novi_Ligure)

[5] Ibidem

[6] Pini G. “Genitori nella rete del bullismo”, Armando Curcio Editore, Roma 2012.

 


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