SOCIETA’, DIRITTO E SICUREZZA PUBBLICA

 

MARCO LILLI 11.12.2015Non è la prima volta, così come non sarà nemmeno l’ultima, che in questa rivista ci occupiamo specificamente anche di diritto (formale e sostanziale). Il perché credo lo si intuisca dalla lettura di numerosi pregressi contributi quando spesso sono evidenziati i forti collegamenti fra società, mutamento sociale e, dal mio punto di vista, “disattenzione” del legislatore nello stare al passo coi tempi. Insomma, una definizione del concetto sociologico del diritto tuttora al centro del dibattito tra studiosi e – sempre per mio conto – come sorta di “bussola” cui il legislatore moderno dovrebbe sempre avere come punto di riferimento.

In proposito, Eugen Ehrlich (1862-1922), considerato il fondatore della sociologia del diritto, di cui ha delineato l’oggetto attraverso una critica del ruolo egemonico dello stato nella produzione del diritto e il sostegno ad una giurisprudenza sociologica in grado di riconoscere ampi margini interpretativi al lavoro dei giuristi, in particolare dei giudici (cfr. Febbrajo, a cura di, 2010).

Ciò premesso, il tema odierno riguarda un fenomeno sociale tutt’altro che raro, riferendomi nello specifico alle forme di devianza e comportamenti violenti all’interno di taluni locali di intrattenimento e spettacolo, dove in genere coesistono almeno tre componenti che agiscono contemporaneamente: 1) consumo di alcol e sostanze stupefacenti, che dal mio punto di vista rappresentano il “carburante” per l’aggressività; 2) certi specifici locali, che tutto somigliano tranne che a luoghi di spettacolo, i quali possono essere definiti come la “camera di combustione”; 3) un malessere generale insito nella società attuale, che rappresenta la scintilla o l’innesco detonatore.

Ebbene, il caso in esame non è certamente tra i più gravi, anzi gli stessi giudici ridimensionano la portata del fatto in sé. Tuttavia è stato da me scelto quale spunto di riflessione utile a mettere in relazione ciò che la norma giuridica impone, ovvero vieta (diritto formale), e l’interpretazione che ne danno dapprima chi è istituzionalmente investito nel far rispettare la legge (le forze di polizia), poi coloro che andranno a giudicare se un certo comportamento ha in effetti violato la norma giuridica.

I fatti riguardano, in questo caso, l’illegittimità del provvedimento del Questore che ordina la sospensione dell’attività di una discoteca, ai sensi dell’articolo 100 del Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza (TULPS), a seguito di un grave episodio di violenza (aggressione) in danno di un avventore.

Tale provvedimento di polizia, impugnato dal titolare di licenza (cfr. TAR Campania, Sezione di Salerno, Sezione II, Sentenza n. 98 del 9 dicembre 2015), è stato poi annullato dal Consiglio di Stato per i motivi qui di seguito brevemente riepilogati, a seguito di appello proposto da parte del medesimo titolare di licenza.

Infatti, a seguito di ricorso al TAR competente, è stata adottata la sentenza in esame secondo la quale si sono ritenute infondate le ragioni della società ricorrente, giacché il provvedimento sarebbe stato adottato nell’esercizio di poteri prettamente cautelari e finalizzati alla tutela dell’ordine pubblico e giustificato dall’aggressione ai danni di un avventore, nonché dall’ulteriore circostanza (accertata mesi prima dei fatti per altri motivi avulsi dal contesto in attenzione) che il personale addetto alla vigilanza del locale non risultava iscritto nell’apposito elenco prefettizio, seppur non riconducibile ai presupposti di cui al citato articolo 100 TULPS, ma che, comunque, costituirebbe un elemento di cui tenere conto ai fini del giudizio di affidabilità della ricorrente.

Per inciso, va sottolineato che il personale definito in sentenza come “addetto alla vigilanza”, rappresenta quella nuova figura giuridica inserita dall’articolo 3 (commi 7-13) della Legge 15 luglio 2009, n. 94: Disposizioni in materia di sicurezza pubblica (Gazzetta Ufficiale n. 170 del 24 luglio 2009 – Supplemento ordinario n. 128). Questa norma (comma 7) tra l’altro prevede che: «è autorizzato l’impiego di personale addetto ai servizi di controllo delle attività di intrattenimento e di spettacolo in luoghi aperti al pubblico o in pubblici esercizi, anche a tutela dell’incolumità dei presenti. L’espletamento di tali servizi non comporta l’attribuzione di pubbliche qualifiche. È vietato l’uso di armi, di oggetti atti ad offendere e di qualunque strumento di coazione fisica». Inoltre (comma 8): «Il personale addetto ai servizi di cui al comma 7 è iscritto in apposito elenco, tenuto anche in forma telematica dal prefetto competente per territorio».

Tornando alle sentenza, il provvedimento di sospensione della licenza di esercizio muove quindi su di un unico ed isolato episodio nel quale non si evidenzia alcuna responsabilità del gestore, nonché, vale la pena di ribadirlo, sull’esito di un controllo, effettuato ben cinque mesi prima, in cui sarebbe stata riscontrata la presenza nel locale del personale non iscritto nel registro prefettizio, circostanza però non espressamente riconducibile ai fini dell’applicazione dell’articolo 100 del TULPS che così stabilisce: «Oltre i casi indicati dalla legge, il Questore può sospendere la licenza di un esercizio nel quale siano avvenuti tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini. Qualora si ripetano i fatti che hanno determinata la sospensione, la licenza può essere revocata».

Ebbene, secondo i supremi giudici amministrativi, la formulazione letterale e la ratio dell’articolo 100 del TULSP «lasciano ritenere che un singolo episodio, non caratterizzato da particolare grave violenza o allarme sociale, non sia sufficiente a rappresentare il legittimo presupposto della sospensione dell’esercizio, sotto alcuna delle ipotesi considerate dalla norma».

Infatti, la misura cautelare di pubblica sicurezza può intervenire in caso di «tumulti o gravi disordini, o che sia abituale ritrovo di persone pregiudicate o pericolose o che, comunque, costituisca un pericolo per l’ordine pubblico, per la moralità pubblica e il buon costume o per la sicurezza dei cittadini».

Pertanto, nel caso specifico, il provvedimento si fonda sulla constatazione che «un giovane avventore era stato aggredito e ferito all’interno della discoteca da uno sconosciuto che lo aveva colpito al capo con una bottiglia di vetro» e sull’assunta notizia che al pronto soccorso dell’ospedale, in orario diverso, erano giunte due persone ferite da arma bianca: un giovane ferito all’interno del locale, mentre un altro nei pressi del medesimo esercizio. Per tutto questo, il Collegio ha ritenuto «per le sue oggettive caratteristiche, l’accertamento posto a base del provvedimento non giustifichi l’adozione della misura cautelativa ai danni dell’esercizio».

Allo stesso modo, tuttavia, l’adozione del provvedimento sospensivo della licenza di esercizio non è imputabile a colpa dell’Amministrazione procedente: «essendo, nella specie, l’adozione della misura preventiva ragionevolmente indotta anche dagli accertamenti pregressi, riguardanti l’impiego quali addetti alla sicurezza del locale di soggetti non iscritti nell’apposito registro prefettizio, alcuni annoveranti precedenti di polizia per reati gravi». Ne deriva, pertanto, da un lato l’accoglimento dell’appello e, per l’effetto, l’annullamento del provvedimento di Polizia; dall’altro, la compensazione tra le parti delle spese di giudizio (Cfr. Consiglio di Stato, Sezione III, Sentenza n. 1752/2016; decisa in camera di consiglio il 3 marzo 2016, depositata in segreteria il 4 maggio 2016).

Dott. Marco LILLI

www.sociologiacontemporanea.it –  dirigente nazionale dell’Associazione  Sociologi Italiani


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