IL ROSSO E IL NERO: DALLE TRIVELLE CHE HANNO IMPOVERITO IL MONDO AL 17 APRILE 2016 IN ITALIA
Il 17 aprile, dalle 7:00 alle 23:00, muniti di tessera elettorale e documento di riconoscimento valido, siamo chiamati a votare per un referendum abrogativo per esprimerci sull’attività di ricerca ed estrazione di idrocarburi liquidi e gassosi a ridosso delle coste italiane (entro 12 miglia marine, circa 22,2 km). Il referendum nazionale è stato promosso da nove regioni italiane contro i progetti petroliferi del governo nelle acque territoriali ed è sostenuto da molte associazioni ambientaliste e dal movimento NoTriv. Le regioni promotrici sono Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise.
La domanda che ci pongono è la seguente: volete che, quando scadranno le concessioni, vengano fermati i giacimenti in attività nelle acque territoriali italiane anche se c’è ancora gas o petrolio?? La campagna ambientalista e, aggiungerei, obiettivamente ragionevole ci spinge a rispondere/votare SI’. Votando Sì si chiede di impedire lo sfruttamento dei giacimenti di idrocarburi a ridosso della costa anche oltre il termine della concessione. Votando No, invece, si chiede di mantenere le norme attuali, che prevedono lo sfruttamento fino alla scadenza della concessione. Va ricordato che il referendum popolare sulle trivellazioni non riguarda i nuovi impianti, in quanto la legge già vieta i giacimenti entro le 12 miglia dalla costa. I giacimenti interessati sono Guendalina (Eni) e Gospo (Edison) nel mare Adriatico e il giacimento Vega (Edison) nelle acque di fronte alla città di Ragusa, in Sicilia.
Da sottolineare che assistiamo ad un sottoutilizzo delle fonti energetiche rinnovabili. In Italia, fino a pochi anni fa, le fonti rinnovabili, nonostante possano costituire il 45% della produzione interna di energia, valgono soltanto lo 0,15% del bilancio energetico nazionale. Le rinnovabili, insomma, rappresentano un 7% che appartiene all’idroelettrico e alla geotermia, tecnologie con una possibilità di crescita scarsissima se confrontate all’eolico e al solare. La situazione allo stato attuale, non è migliorata di molto, facendo dell’Italia una nazione con la maglia nera in Europa per il suo impegno sull’energia rinnovabile. Questa negligenza mina lo sviluppo in termini occupazionali e incide sullo stato di salute dei cittadini. Perché non ci si dirige verso la giusta direzione? Essenzialmente per due motivi:
- Perchè manca una volontà politica da parte di governi sempre più ostaggio degli immensi interessi delle multinazionali degli idrocarburi.
- Perché si affronta la questione energetica alla vecchia maniera, ossia per compartimenti stagni, senza capire che è un fenomeno che lega indissolubilmente più aree di interesse: difesa dell’ambiente, pace, diritti, sicurezza energetica, politica estera, politica economica e finanziaria, difesa dei beni comuni. L’abitudine a guardare ai fenomeni con un approccio interdisciplinare è un’abitudine dura ad insediarsi.
Per questa ragione, il 17 aprile i cittadini sono chiamati ad esprimersi per una questione di fondamentale importanza: opporsi o meno ad un estrazione petrolifera che si prolunghi fino ad esaurimento scorte.
Sorge, allora, il seguente interrogativo: perché è così importante che la nostra voce si faccia sentire? Cosa ci insegna la storia in merito alla trivellazione? Un libro molto interessante edito da DeriveApprodi dal titolo: “ Il sangue della Terra. Atlante geografico del petrolio. Multinazionali e resistenze indigene nell’Amazzonia ecuadoriana” analizza e denuncia con dati alla mano, documenti e testimonianze, i disastri ambientali, le violazioni dei diritti umani e i crimini commessi su uno degli ecosistemi più importanti del mondo e sulle popolazioni indigene che lo proteggono. Il libro presenta anche casi analoghi, circa 16 quanti sono i blocchi petroliferi di Repsol, Eni, Encana e altre “sorelle del petrolio”, che ci mostrano una sorta di “geografia della resistenza” contro la trivellazione. La rincorsa al petrolio, la “febbre dell’oro nero” ha provocato una serie di squilibri sociali e ambientali che hanno avuto una scarsissima risonanza mediatica e che dunque, a maggior ragione, meritano di essere spiegati, raccontati, condivisi.
La storia è sempre la stessa: spesso il petrolio non rappresenta una ricchezza per i Paesi che lo posseggono, ma si rivela un miele velenoso che attira predatori da tutto il mondo. Il caso dell’Ecuador è emblematico poiché, a distanza di oltre 500 anni dalla scoperta delle Americhe, ci ritroviamo a parlare ancora di sfruttamento coloniale per descrivere le relazioni commerciali tra Occidente e Nuovo Mondo. Dopo più di 30 anni di attività di estrazione petrolifera, le condizioni di vita dell’Amazzonia, polmone verde del mondo, sono senza dubbio peggiorate così come si è creata una dipendenza finanziaria tra sfruttamento petrolifero e concessione dei prestiti da parte del FMI; sono peggiorate le condizioni di lavoro, si è registrata una perdita del potere di acquisto dei lavoratori dipendenti, per non parlare della violazione dei diritti delle comunità native.
Il libro, scritto dall’associazione “A Sud” impegnata per la promozione di campagne e azioni per la difesa dei beni comuni e per la salvaguardia delle foreste primarie, ci mostra come già solo l’italiana ENI si è macchiata in Ecuador di pesantissime violazioni, sventrando l’Amazzonia per 503 km attraversando faglie sismiche, vulcani e aree ecologiche.
Questo disastro ambientale riflette l’incapacità della politica di articolare risposte alternative al progetto di sfruttamento delle corporation e mostrano come vi sia una collusione di interessi tra multinazionali, FMI e una parte stessa dello Stato e delle sue forze militari: quando i militari entravano nei territori indigeni non lo facevano a difesa dei nativi, ma per difendere gli interessi delle aziende petrolifere contravvenendo palesemente all’obbligo di difendere il loro popolo.
E non regge neanche più la favola del progresso economico grazie al petrolio appurata l’ineguale distribuzione dei vantaggi dallo sfruttamento petrolifero, tant’è che l’Ecuador è un Paese indebolito e impoverito a causa del petrolio, che ha perso competitività in altri settori dell’economia, danneggiando la biodiversità e la cultura dei suoi popoli originari. Basta guarda la cartina del Ministero dell’Energia del Sud America per vedere come linee rette delimitino i blocchi petroliferi di concessione delle terre ora in appalto ad aziende straniere. In questi blocchi squadrati e innaturali si consuma la conquista.
Vorrei riportare a testimonianza di quanto detto finora, la storia del Blocco 10 che si trova a Nord della provincia di Pastaza in Ecuador.
L’area ha una riserva naturale ecologia dell’Antisana di 120.000 ettari con sorgenti d’acqua che riforniscono direttamente la città di Quito. La riserva è stata già sventrata da un oleodotto che va ad intaccare 10 zone calde ossia quelle ritenute le più importanti del pianeta per ricchezza di biodiversità. E’ l’italiana ENI attraverso la sua filiale ecuadoriana AGIP[1] nel 1997 ad iniziare le attività nella regione amazzonica con il 100% di diritti sul blocco 10[2].
Già attiva in Nigeria, l’Agip aveva fatto sentire chiaramente gli effetti della sua stabilizzazione: le comunità nigeriane, infatti, condannano la cosiddetta “combustione controllata” all’aria aperta del gas che si sprigiona dai pozzi petroliferi (Bianchi, 2005). La Nigeria è il paese in cui si brucia la maggior quantità di gas eccedenti dall’attività petrolifera e la combustione libera sostanze estremamente tossiche che pregiudicano la salute umana e gli allevamenti di bestiame delle comunità locali. Non a caso, negli ultimi 40 anni, gli abitanti del Delta del Niger soffrono di malattie respiratorie, morti premature e diverse forme di cancro. Testimonianze delle donne querelanti del Che Ibegwura ci dicono:
“Le nostre terre coltivabili sono state contaminate. Ci diamo molto da fare per piantare qualcosa e raccogliamo ben poco. I tetti delle nostre case sono corrosi, l’aria è inquinata e i nostri bambini sono malati. Anche l’acqua piovana che beviamo è contaminata dal pulviscolo del gas bruciato. Abbiamo bisogno di un’azione legale per proteggerci, proteggere i nostri figli e il nostro futuri”[3]
Ma torniamo al Blocco 10. L’Agip fa firmare alle comunità locali una dichiarazione in cui si afferma che: “le comunità saranno le uniche responsabili per incidenti, danni a terzi, inquinamento dell’ambiente e qualsiasi altro tipo di episodi spiacevoli”, insomma, le vittime sono responsabili della loro stessa morte. Il paradosso! Con l’inizio dell’attività petrolifera cominciano a cadere le piogge nere sulle coltivazioni con conseguente perdita di semina e raccolto. Le piogge nere sono dovute all’incenerimento dei residui di gas e di greggio, si infiltrano nei serbatoi d’acqua che le popolazioni utilizzano per il consumo personale, fino a contaminare gli estuari dei fiumi e le sorgenti d’acqua. Lo stato di salute degli abitanti peggiora: vengono riscontrate malattie respiratorie, epidermiche e legate all’apparato digerente. Anche gli animali di allevamento si ammalano e muoiono. Economia, basata su agricoltura e allevamento, e salute distrutta. A febbraio 2005, Acciòn Ecològica e l’Associazione A Sud hanno realizzato delle analisi su alcuni campioni di terreno mostrando la presenza di idrocarburi nei terreni coltivati in percentuale 5 volte superiori a quelli permessi in Ecuador e 50 volte oltre i parametri italiani. L’Agip nega qualsiasi responsabilità e assicura di rispettare gli standard di qualità ambientali richiesti da Petroecuador e di querelare chiunque sporga denuncia.
Riassumendo e concludendo: nella provincia di Pastaza le incursioni dell’attività estrattiva petrolifera hanno modificato l’equilibrio ambientale caratterizzato da una altissima fragilità degli ecosistemi, in particolare di boschi umidi tropicali dove risiedono indigeni nativi. Il processo di trasformazione culturale di queste società prende avvio con l’avvicinarsi di commercianti, missioni religiosi, delegazioni militari e da un accelerato processo di colonizzazione e l’entrata delle compagnie petrolifere che richiedono infrastrutture, forza lavoro e servizi. L’attività petrolifera prevede una fase di esplorazione sismica (per determinare la presenza di petrolio nella zona si fanno detonare carichi di dinamite attraverso le quali si ottengono risposte in termini di vibrazioni dal suolo), seguita dalla esplorazione (perforazione di pozzi per calcolare la quantità di petrolio nelle riserve) e dalla produzione (confermata la presenza di petrolio, si delimita il campo petrolifero e si stabiliscono i punti di estrazione). Nel caso del popolo Huaorani, l’Agip impedisce agli indigeni di passare per la zona di estrazione e questo li ha costretti a modificare i processi di sussistenza basati sulla caccia e la pesca e a subire un processo forzato di sedentarizzazione. Molti del popolo Quitchua, invece, sono stati impiegati nella manutenzione del posto impedendo loro di impegnarsi nelle attività tradizionali e creando, così, una dipendenza economica degli autoctoni all’attività petrolifera che ha fortemente minato la capacità decisionale e l’autogestione delle comunità, principale impatto socioculturale dell’estrazione petrolifera.
La salute e l’alimentazione ne risultano anch’essi fortemente condizionati: la diminuzione di caccia e pesca e l’introduzione da parte delle imprese straniere di cibo in lattina e riso, hanno ridotto l’apporto proteico per gli abitanti, mentre il mancato controllo nella attività di estrazione ha provocato l’insorgere di malattie come cancro, tubercolosi ed epatite B.
Il ruolo dello Stato ecuadoriano è stato essenzialmente quello di apportare modifiche legali e istituzionali per normativizzare le attività petrolifere. Lo Stato è proprietario delle risorse del sottosuolo, è vincolato all’impresa, ma non mantiene relazioni con le organizzazioni indigene, quindi, non è obbligato ad informare e consultare le popolazioni rispetto all’attività estrattiva nella loro zona. La strategia, in poche parole, è stata quella di lasciare che le imprese gestiscano le relazioni con le comunità, le quali vengono spesso ingannate, accettando negoziazioni svantaggiose. Questo modello di relazione è attualmente INCOSTITUZIONALE, perché contraddice i diritti collettivi dei popoli indigeni inseriti nella Costituzione ecuadoriana del 1998.
Esiste anche un impatto culturale: le popolazioni indigene sono completamente estranee al concetto di sviluppo lineare tipico occidentale. Per l’Occidente i concetti di povertà e ricchezza sono determinati dalla carenza o accumulazione di beni materiali; per le popolazioni indigene, invece, si parla di “buon vivere”: essi hanno una visione olistica dello sviluppo, ovvero c’è sviluppo solo se si agisce in armonia con l’ecosistema, se l’azione antropica non genera disequilibrio, se il raggiungimento del mio benessere non intacca il tuo benessere (Viteri, 2000).
E’ chiaro che l’imposizione di una visione antropocentrica europeista, o meglio, occidentale, che pone lo sviluppo all’interno delle logiche di mercato, annienta secoli di cultura indigena.
La storia del Blocco 10 insegna. Insegna che l’attività di estrazione petrolifera è legata ad interessi politico-economici. Insegna che il volere delle popolazioni spesso non è tenuto in considerazione; che si insegue un progresso sganciato dal rispetto dell’ambiente. Ci insegna, soprattutto, che ci sarà sempre un Sud del mondo e quello, un giorno, potremmo essere noi.
Il petrolio, infatti, è un problema non solo per il Sud del mondo, ma anche per il Nord consumatore, disposto a pagare col sangue degli altri il suo presunto sviluppo, non comprendendo di essere tutti parte di un immenso ingranaggio. Per questa ragione dobbiamo PENSARE GLOBALE E AGIRE LOCALE. Il prezzo dello sviluppo è sangue e petrolio: rosso e nero. Facciamo in modo che le masse diventino critiche, che le nostre voci siano limpide e cristalline e le nostre mani non siano macchiate né di rosso né di nero.
Sonia Angelisi, sociologa
[1] L’Agip lavora per le fasi di esplorazione e produzione di petrolio e gas nel settore petrolchimico di raffinazione e approvvigionamento, trasporto, distribuzione e vendita di gas naturale, nonché produzione e vendita di energia elettrica.
[2]A Sud, “Il sangue della Terra”, p. 127, DeriveApprodi, Roma 2006.
[3] Ibidem, p. 130