PROCESSI MEDIATICI E SPETTACOLARIZZAZIONE DELLE OPERAZIONI DI POLIZIA GIUDIZIARIA
Sento il rumore delle sue eliche, mi affaccio alla finestra e lo vedo volteggiare nel cielo terso dei giorni della merla. E’ l’elicottero della Polizia di Stato, e le mie le reminiscenze di cronista certificano che è in corso un’operazione di polizia giudiziaria. Questo copione lo conosco a memoria: è un motivo ricorrente nella lotta alla criminalità organizzata. La sua funzione, come in una guerra, è dare assistenza a quanti operano sul territorio. Giusto, ma a volte si esagera. Giusto perché la cattura di uno o più latitanti, l’esecuzione di provvedimenti restrittivi che disarticolano organizzazioni criminali, soprattutto nel momento della traduzione in carcere, richiedono l’osservanza di protocolli standard di sicurezza. In casi del genere è sempre necessario usare l’elicottero? Per farlo alzare in volo e lasciarlo in aria per alcune ore, lo Stato deve sostenere dei costi che rientrano nel plafond di risorse per la sicurezza dei cittadini. In tempo di spending review l’utilizzo del velivolo sembra un lusso, quasi uno spreco. E la gente, per strada e nelle case, si chiede se non fosse più logico risparmiare i costi sostenuti per il volo ed utilizzare le risorse per colmare alcune lacune strutturali ( i sindacati di polizia continuano a denunciarne tante) dei singoli settori di attività istituzionale. La nostra riflessione, assolutamente, non vuole essere una critica alle strategie territoriali varate ed attuate dalle forze di polizia quanto, invece, un rifiuto alla spettacolarizzazione di compiti istituzionali che sono dei semplici obblighi, peraltro garantiti costituzionalmente, nei confronti dei cittadini. Il poliziotto non è un eroe, un Rambo, ma un servitore dello Stato e per questo suo impegno riceve un corrispettivo, lo stipendio, sicuramente non adeguato al lavoro che svolge ed ai rischi che corre. La stessa cosa vale per i magistrati e per quanti fanno parte delle burocrazia statale, soprattutto di quella costantemente sotto le luci della ribalta. Quel tipo di lavoro se lo sono scelto da soli: per predisposizione, vocazione, per fascino, ma anche perché hanno ritenuto di poter trovare in esso l’attività giusta per soddisfare personali aspirazioni sociali, culturali ed economiche.
E’ sbagliato, infatti, considerare buoni quanti svolgono certi ruoli sociali mentre il resto dei cittadini viene diviso tra gente comune e cattivi. Un ragionamento questo che, di fatto, disconosce gli effetti della divisione del lavoro sociale che, come insegna Durkheim, specializza quanti sono impegnati in compiti intellettuali o manovali, risolve i conflitti sociali, produce maggiore sicurezza e le prestazioni lavorative raggiungono un alto grado di qualità (ed aggiungo: soprattutto in una società tecnologicamente avanzata). La spettacolarizzare di operazioni di polizia giudiziaria, soprattutto se il castello accusatorio successivamente dovesse crollare all’esame di un collegio giudicante, non è degno di un paese civile che ha l’obbligo di considerare un qualsiasi cittadino, indagato a piede libero o privato della libertà personale (boss o ladri di galline), innocente fino a sentenza passata in giudicato. L’uscita di arrestati dalle sedi delle forze dell’ordine, in manette per essere tradotti in carcere, fatti sfilare tra due ali di fotografi e cineoperatori, non è certo una rappresentazione gradevole. Mentre fuori, sulla pubblica via, piccole folle assistono allo spettacolo con qualcuno degli astanti che, forse, riesce a comunicare con un sodale che viene tradotto nelle patrie galere. La malavita organizzata ha i suoi codici, i suoi linguaggi che in un attimo trasmettono ordini, comunicano segreti, indicano ai vertici del sodalizio la strategia per conservare il potere criminale.
Una società di spettatori, la nostra. “Una parte integrante della definizione di spettatore – scrive Bauman ne “Il Secolo degli spettatori” -, di fatto una delle principali caratteristiche, era il non essere fra i criminali”. Appunto, fruitori di spettacolo diventato globale: gli avvenimenti si susseguono a ritmo così veloce che lo spettatore diventa bulimico. Non siamo mai sazi, nonostante i telegiornali ci bombardano con notizie di cronaca: fatti di sangue, attentati, stragi in nome di un dio o episodi di routine riconducibili all’attività dei boss della ‘ndrangheta, che nelle loro tane pasteggiano a caviale e champagne (ma sarà vero?), sconfitti da Superman con telecamere al seguito. L’insicurezza del presente e l’incertezza del futuro unisce cittadini di diverse culture ed estrazione sociale. E così assistere a spettacoli, dal vivo, o attraverso la mediazione delle tecnologie informatiche e telematiche, ci regala delle fallaci certezze di aver trovato l’antidoto alle nostre paure. Basta fare zapping o un clic sulle pagine dei social che la vita ci appare meno frenetica. Dopo l’11 settembre, l’uomo è diventato incerto, fragile, insicuro ed è convinto che, da solo o collettivamente non riesce più a controllare nulla.
La società di spettatori genera un’opinione pubblica eterodiretta che – come sosteneva il sociologo statunitense David Riesman – soggiace agli stimoli e ai condizionamenti imposti soprattutto dai mass-media che spettacolarizzano tutto, violano la privacy dei cittadini, specie di quanti, volutamente o per caso, rimangono coinvolti in fatti di cronaca. Capita spesso che comunicazioni riservate finiscano prima sui giornali, in televisione o sulla rete che davanti ad un tribunale e ancora prima di un giudice terzo preposto a controllare la fondatezza dell’accusa. Il cittadino comune si chiede perché quel materiale diventa di pubblico dominio e, soprattutto, chi lo passa a giornali e televisioni. Misteri, ma non troppo. Quel materiale diventa merce di grande valore per imbastire processi mediatici che si celebrano in uno studio della televisione di Stato e delle emittenti commerciali. Ore e ore di disgustose chiacchiere, di pareri di esperti, di coinvolgimento di aspiranti stregoni, di inviati e di scoop danno vita ad una contesa tra colpevolisti tenaci e agguerriti e innocentisti timorosi di diventare impopolari. Immaginiamo per un attimo il danno, morale e materiale, subito da un innocente finito nel tritacarne mediatico. Una babele, una vergogna. Ed è ancora più vergognoso che questi programmi facciano parte del palinsesto Rai e finanziati con i soldi – da oggi possiamo dirlo – di tutti gli italiani. Il gioco è retto da un sistema che se da un lato assicura l’audience e soldi, tanti soldi ai conduttori, dall’altro assicurano notorietà e promozioni a quelli che una volta chiamavamo servitori dello Stato. Lo spettacolo va avanti senza pause, nessuno può o vuole fermarlo e narcotizza finanche il sentimento dell’indignazione.
Antonio Latella – Giornalista professionista e sociologo ( Presidente del Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)