IL CAPORALATO NON SI SCONFIGGE CON I SOLI MUSCOLI…
La ricorrenza della rivolta degli immigrati, avvenuta sette anni fa a Rosarno, ripropone all’attenzione dell’opinione pubblica lo sfruttamento della manodopera bracciantile. I campi di immigrati, il loro utilizzo al limite della schiavitù non è un fenomeno che riguarda solo Rosarno ed altre realtà agricole del Mezzogiorno, ma tutti quei settori che utilizzano manodopera stagionale attingendo dal bacino del disagio sociale, da contesti territoriali sottosviluppati e degradati. Oggi l’esempio più eclatante di questo antico problema è Rosarno. E’ giusto, però, domandarsi se questo interesse abbia un fondamento umanitario e di giustizia sociale oppure serva per proseguire la creazione di stereotipi che tendono a criminalizzare questa parte geografica del paese dove la ‘ndrangheta tenta, e spesso ci riesce, ad imporre la sua legge, aiutata in questo dalla fragilità degli anticorpi sociali di cui l’atavica assenza dello Stato impedisce la rigenerazione. Non si tratta di assenza fisica, ma pedagogica perché mostrare i muscoli, con schieramenti di forze in assetto di guerra e con la spocchia da conquistatori, non aiuta questa collettività a liberarsi di quel retaggio culturale tipico delle società “chiuse” che conservano ancora “le basi morali di una società arretrata”. Il familismo amorale è un residuato della vecchia cultura rosarnese (e in generale del comprensorio di Gioia Tauro) che, per certi versi, nonostante siamo in piena società postindustriale, ha analogie con l’indagine che il sociologo americano Edward Mansfield fece in un paesino della Basilicata nella metà degli anni Cinquanta. Anche a Rosarno, come in tanti altri comprensori calabresi, l’assistenzialismo di Stato, gestito dai leader dei partiti politici della cosiddetta Prima Repubblica, è stato la causa dell’affermarsi della cultura del parassitismo, dell’illegalità in antitesi con quella del lavoro. Le ruberie sulle integrazioni in agricoltura, l’utopia del V Centro Siderurgico, gli appalti pubblici che hanno ingrassato le imprese degli amici degli amici, le agevolazioni statali per la creazione di posti di lavoro finite nei bilanci di società del nord, le grandi famiglie mafiose serbatoio di voti per uomini e formazioni governative: tasselli di un sistema talmente cristallizzato che l’attività repressiva dello Stato riesce appena a scalfire.
Delle condizioni disumane degli immigrati che partecipano alla campagna agrumicola abbiamo scritto di recente anche per questo sito. E non intendiamo ritornavi, almeno per il momento. Piuttosto vorremmo soffermarci sul sistema di caporalato che interessa anche Rosarno, ampiamente riportato dalla stampa locale e regionale. Le cronache scrivono di un “caporalato sotto torchio”, di 73 perquisizioni, dell’impiego di 50 uomini delle forze dell’ordine e di due denunce. Un modesto mattinale, dal quale si può, al massimo, ricavare una breve riquadro da collocare a fondo pagina. Invece, sono venuti fuori servizi a cinque colonne, con foto incastonate nel pezzo infarcito di dichiarazioni trionfalistiche che ribadiscono la presenza dello Stato. Ci mancherebbe altro che lo Stato, di fatto, non fosse presente a Rosarno e nel suo comprensorio. Ma nonostante questa presenza, e nonostante l’operazione osannata dai giornali, il caporalato c’è, ma nessuno lo vede. Men che meno gli apparati dello Stato i quali, detto con grande onestà intellettuale, si spendono per riportare la legalità, ma sbagliano sia l’approccio che il metodo. Con grande dispendio di risorse pubbliche.
Ma chi sono i caporali? Si tratta di un microcosmo così invisibile che solo attraverso un’attività di intelligence è possibile risalire alle trasversalità che lo compongono. Caporale di braccianti, in zone alle prese con povertà, sottosviluppo e disoccupazione, può essere chiunque: il mafioso come il disoccupato, il cassintegrato come il nullafacente, il proprietario terriero, lo stesso bracciante immigrato (tanto per fare alcuni esempi). Una presenza con grande capacità di mimetizzarsi in un ambiente dove omertà, paura, cultura dell’illegalità diffusa, corruzione, politica miope e pervasività dell’antistato sono gli elementi costitutivi della grande muraglia che rende impenetrabile un territorio che metaforicamente potremmo definire “zona franca”.
Ma si tratta solo di un segmento, perché la storia di questa cittadina reggina e dello stesso hinterland è ricca di esempi di generosità, di impegno civile finalizzato a creare i presupposti del cambiamento. Un substrato, quello della zona franca, talmente cristallizzato che per frantumarlo occorre una diversa strategia da attuare dopo un’attenta analisi del territorio: partendo dai bisogni del cittadino fino alla creazione di una lucida e leggibile mappa degli aspetti sociali, culturali, economici, relazionali, delle formazione, dell’istruzione e dell’associazionismo. Queste due ultime componenti, in particolare, dovranno scendere dal podio dell’autoreferenzialità per lavorare in silenzio: lontani dal clamore mediatico procurato dalle proteste saltellanti e cantanti e da sfilate floreali. Occhio anche agli stessi immigrati. Molti caporali provengono da quest’ambiente che, autonomamente o con l’accordo tacito o codificato con la criminalità organizzata e gli agrumicoltori, fanno girare un sistema che attraverso lo sfruttamento delle braccia produce business. Ecco perché i blitz non sortiscono effetti sperati: il passaparola, che precede l’arrivo delle forze dell’ordine, come ai tempi della cultura contadina, produce il miracolo del ritorno alla legalità. Perché finanche gli sfruttati, pur di non perdere il misero salario giornaliero (20 euro) sono costretti a far buon viso a cattivo gioco. Vogliamo mettere mano al caporalato o continuare a parlarci e piangerci addosso? A poco servono i controlli oggi, in piena campagna agrumicola. E’ prima che bisogna agire. Farlo non sarà certo impossibile visto che ci vantiamo di avere un apparato di intelligence che non è secondo ad altre nazioni occidentali.
Il terzo aspetto riguarda la collaborazione delle associazioni di categoria e le stesse organizzazioni sindacali agricole che nei loro quadri hanno anche attivisti provenienti dal mondo dell’immigrazione. Queste persone noi, nel corso di un reportage televisivo, le abbiamo intervistate e dalle loro mezze frasi presumiamo di aver capito per sommi capi il sistema.Un altro fattore che incide sull’esistenza in vita del caporalato di Rosarno è il mercato che trova impreparato il comparto agricolo che, sia per le politiche statali che regionali, non regge alla concorrenza estera che provoca, di anno in anno, la diminuzione del prezzo all’ingrosso di un prodotto, gli agrumi reggini, dalle grandi qualità organolettiche. La nostra agricoltura è suddita dell’Unione Europea, in balia degli ondeggiamenti delle politiche governative e orfana di una Regione che, in passato, ha pensato più a litigare che a produrre leggi in grado di proteggere i prodotti agricoli calabresi.
Antonio Latella – giornalista professionista e sociologo ( Presidente Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)
Le foto sono state tratte da ilgiornaledicalabria.it; strill.it e filierasporca.og