IL DEFICIT DEMOCRATICO NELL’UNIONE EUROPEA

 

MAURIZIO BONANNO 26 settembre 2015Dopo la Grecia e la Gran Bretagna, che da tempo e per diversi motivi annunciano piani di exit strategy dall’Ue, adesso il fronte euroscettico si allarga ulteriormente ed in maniera preoccupante: il risultato di qualche settimana fa di Podemos alle amministrative spagnole è stato un primo segnale per i partiti europeisti, mentre a Varsavia la vittoria di Duda e del partito anti-europeo non può che allarmare, soprattutto se affiancato agli atteggiamenti di forte chiusura ed autodeterminazione che continua ad attuare un altro Paese dell’ex cortina di ferro: l’Ungheria, con i suoi muri anti migranti.

Il problema è ben più complesso e riguarda innanzitutto il dibattito relativo alla natura e alla qualità delle democrazie di massa, così come si erano configurate nel corso del XX secolo.

Per comprendere lo scenario politico che si va delineando nei singoli Paesi europei, non esiste più la vecchia chiave di lettura tipicamente novecentesca, basata sulle categorie destra-sinistra: bisogna andare oltre, per collocare i partiti al di là o al di qua del recinto di fedeltà all’attuale assetto politico-istituzionale dell’Unione Europea. È fuorviante applicare un denominatore comune alle performance elettorali di Podemos (sinistra) in Spagna e del conservatore Dida, alla guida del Partito Diritto e Giustizia in Polonia; oppure, in Olanda, a collocare sotto lo stesso ombrello del «no austerità» il Partito della Libertà (destra) e il Partito Socialista (Sinistra).

Altro aspetto da prendere in considerazione (e che, gradualmente ma inesorabilmente, si sta verificando anche in Italia), riguarda i dati che evidenziano che i livelli medi di partecipazione dei cittadini alla vita politica sono di gran lunga inferiori a quelli ai quali eravamo abituati secondo il modello fissato dalle teorie novecentesche sulla democrazia. Nonostante i miglioramenti registrati all’inizio del nuovo millennio sul  piano economico, il cittadino reale è molto diverso da quello ideale, da quello auspicato dai vecchi libri di educazione civica.

Le conclusioni degli studiosi, però, non sono in proposito per niente univoche.

Da una parte, infatti, ci sono coloro i quali considerano “fisiologici” i livelli di partecipazione dei sistemi democratici quali oggi si registrano, poiché la partecipazione ha carattere di spontaneità ed è soggetta alla volontà dei cittadini di dedicare alla politica parte delle risorse intellettuali e materiali. Certamente, è auspicabile un ruolo più attivo dei cittadini nella vita politica, ma per sua stessa natura la democrazia non può prescrivere ordini inderogabili.

Dall’altra parte, altri politologi vedono nella scarsa partecipazione popolare alla vita politica, la conferma che le democrazie contemporanee sono – ancora – largamente imperfette.

Se si riuscisse ad estendere ed intensificare il coinvolgimento della cittadinanza nell’arena politica, sicuramente, ne deriverebbe un sensibile miglioramento della qualità della democrazia. Una maggiore partecipazione potrebbe infatti contribuire nella formazione di cittadini più competenti e potrebbe sicuramente stimolare gli interessi della popolazione. Un’opinione pubblica più attiva, potrebbe limitare lo spazio all’azione di gruppi portatori d’interessi particolari e quindi diminuire la loro influenza sulle decisioni della comunità. Da ciò, potrebbero derivare alla classe politica maggiori e più incisivi stimoli, in vista del giudizio di elettori più maturi e meno influenzabili da suggestioni superficiali.

Comunque, resta aperto il problema di come si possa colmare il deficit di partecipazione che è un elemento tipico delle democrazie contemporanee.

Gli eventi più recenti ed appena ricordati devono farci riflettere su quello che si può definire il “deficit democratico dell’Unione Europea”.

Il concetto di deficit democratico nell’Unione Europea è l’idea che la governance dell’UE sia, in qualche modo, carente di legittimazione democratica.

Il termine venne utilizzato per la prima volta da David Marquand (1), nel 1979, in riferimento alla Comunità Economica Europea.

Marquand criticava, nello specifico, il trasferimento dei poteri legislativi dai governi nazionali al Consiglio dei ministri europeo. Le critiche mosse porteranno, poi, alla creazione di un Parlamento Europeo dotato della facoltà di approvare o di rigettare progetti di legge dell’Unione.

Scriveva, allora, David Marquand: “Il concetto di ‘deficit democratico’ non è accettabile in una comunità impegnata secondo principi democratici. Ma un tale deficit è inevitabile a meno che il divario non venga in qualche modo riempito da un Parlamento europeo”.

Il principio di riferimento parte dal presupposto che, considerato che diverse leggi nazionali nascono all’interno di dibattiti al livello delle istituzioni europee – ma le leggi europee hanno la supremazia sulle leggi nazionali – è importante che i cittadini europei siano coinvolti nel processo di decision-making e che l’Europa sia la più democratica possibile.

Ma quanto questa legittimità democratica è espressa al meglio all’interno delle principali istituzioni europee?

Non c’è dubbio che oggi le istituzioni europee non siano considerate completamente democratiche.

Il Parlamento europeo, definito come l’organo democratico per eccellenza, in realtà non ha il potere di legiferare al pari dei parlamenti nazionali: è la Commissione l’unico organo capace di dare inizio ad un processo di law-bulding e il Parlamento può solo approvare la legge o rimandare la stessa alla Commissione, chiedendo di apportare alcune modifiche.

Inoltre, al centro del deficit democratico nell’Unione europea vi è la carenza di partecipazione popolare alle decisioni europee: le elezioni per il Parlamento europeo soffrono di un lento ma inesorabile turnout, nella misura in cui i cittadini non stanno cogliendo l’occasione di influenzare il processo di decision-making. Inoltre, coloro i quali vanno a votare, tendono a votare sulla base di questioni nazionali, piuttosto che europee.

L’aspetto più evidente che denuncia la sussistenza di questo “deficit democratico” si può facilmente individuare valutando le tecniche decisionali per l’adesione agli atti comunitari che nei diversi Stati membri non seguono sempre dei canali democratici. Valga l’esempio del Trattato di Lisbona(2), il quale ha riproposto quanto già previsto nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, a sua volta respinto dai referendum svoltisi in Francia e in Olanda.

Tale scelta ha sollevato ovviamente critiche da parte della dottrina più attenta. Come rilevato da Jürgen Habermas (3), in un articolo pubblicato sul Süddeutsche Zeitung, il Trattato di Lisbona è stato approvato passando sopra i voti e le opinioni dei cittadini; detto in altri termini, «Lisbon is a Treaty spirited by fear from the public».

Per altri invece, non vi è stata alcuna “confisca democratica” perché la scelta del metodo di approvare il Trattato resta comunque nella disponibilità dello Stato membro; inoltre, si è avuto in questo caso un mero trattato di modifica che, com’è avvenuto in passato, non richiede alcun interevento diretto del popolo.

Resta in ogni caso evidente il fatto che esso sia stato contenutisticamente una riproposizione di un accordo, con ben più ampie aspirazioni, sul quale alcuni Paesi si erano già dichiarati contrari.

Quindi, la prospettiva di migliorare gli istituti di democrazia a livello comunitario è sicuramente da accogliere positivamente, a patto, però, che tale “movimento democratico” interessi prima di tutto gli Stati membri e poi l’UE. Esso deve atteggiarsi come un processo democratico che animi, ad ogni livello, l’Europa e che tenti di colmare quelle distanze che sussistono tra le istituzioni statali e comunitarie ed i cittadini, allorquando vi siano decisioni riguardanti l’Unione europea.

È questa l’idea di una governance più democratica e multilivello, che sia cioè finalizzata a potenziare la partecipazione popolare alla politica delle istituzioni comunitarie evitando così il perpetuarsi dell’attuale “deficit democratico” che sta favorendo le spinte nazionalistiche dei cosiddetti “euroscettici”.

Maurizio Bonanno – giornalista e sociologo

 

[1] David Marquand (1934), è un accademico britannico  ed ex membro del Parlamento nel partito laburista. Docente di Politica presso l’Università del Sussex, è direttore della Mansfield College. Attualmente è Visiting Fellow nel Dipartimento di Politica dell’Università di Oxford e Professore Onorario di Politica all’Università di Sheffield .Gli scritti di Marquand si basano ampiamente sulle questioni della politica britannica e la democrazia sociale. Marquand ha scritto molto sul futuro dell’Unione europea e sulla necessità di una riforma costituzionale nel Regno Unito.

2 Il Trattato di Lisbona, noto anche come Trattato di riforma, che modifica il trattato sull’Unione europea e il trattato che istituisce la Comunità europea, è il trattato internazionale, firmato il 13 dicembre 2007, che ha apportato ampie modifiche al Trattato sull’Unione europea e al Trattato che istituisce la Comunità europea. Rispetto al precedente Trattato, quello di Amsterdam, abolisce i “pilastri”, provvede al riparto di competenze tra Unione e Stati membri, e rafforza il principio democratico e la tutela dei diritti fondamentali, anche attraverso l’attribuzione alla Carta di Nizza del medesimo valore giuridico dei trattati. È entrato ufficialmente in vigore il 1º dicembre 2009.

3 Jürgen Habermas (1929) è un filosofo, storico e sociologo tedesco nella tradizione della “Teoria critica” della  Scuola di Francoforte (come T. W. Adorno, M. Horkheimer, H. Marcuse, E. Fromm). Nei suoi scritti occupano una posizione centrale le tematiche epistemologiche inerenti alla fondazione delle scienze sociali reinterpretate alla luce della “svolta linguistica” della filosofia contemporanea; l’analisi delle società industriali nel capitalismo maturo; il ruolo delle istituzioni in una nuova prospettiva dialogico-emancipativa in relazione alla crisi di legittimità che mina alla base le democrazie contemporanee e i meccanismi di formazione del consenso. La sua elaborazione filosofica lo ha visto  sempre impegnato nella critica del metodo del conoscere oggettivamente. Questo lo ha condotto sulla via della fondazione di una nuova ragione comunicativa, che egli ritiene possa liberare l’umanità dal principio di autorità. Infatti, considera che solo il paradigma conoscitivo intersoggettivo quale elemento fondativo di una nuova ragione comunicativa va ben al di là di un astratto paradigma della soggettività, di cui peraltro sollecita l’abbandono.

 

 

 


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