IL PICCOLO COCO’ SI SAREBBE POTUTO SALVARE?

LATELLA 14 OTTOBRE 2015L’orrore   per la barbara morte di Cocò Campolongo è stato riesumato con l’arresto di due dei presunti assassini del bambino di Cassano allo Ionio, “giustiziato” il 16 gennaio dello scorso anno assieme al nonno materno e alla giovanissima compagna di quest’ultimo.  I particolari dell’operazione di polizia giudiziaria, disposta dalla DDA di Catanzaro, hanno riempito intere pagine di giornali, ore di trasmissioni televisive, grandi spazi sui blog. Non è la cronaca che in questa sede ci interessa, quanto i fatti che hanno preceduto questa bestiale pagina di sangue che ha fatto rabbrividire il mondo.

Il piccolo Cocò si sarebbe potuto salvare?  In molti ne sono convinti, pochi invece quelli che, fino ad oggi, hanno avuto il coraggio di evadere dalla gabbia di un’opinione pubblica eterodiretta per fare un ragionamento lineare, scevro da preconcetti e, soprattutto, in grado di aiutarci a capire se in certi episodi, oltre alla barbarie e alla casualità, ci sia dell’altro.

Il resoconto delle indagini accredita la tesi che il nonno di Cocò, Giuseppe Iannicelli, con precedenti, usasse il bambino della figlia (da poco tornata in carcere) come scudo per impedire la vendetta da parte degli uomini di un potente clan malavitoso dal quale l’uomo, forse, voleva sganciarsi e continuare per conto proprio l’attività di narcotrafficante.  Oltre al piccolo Cocò, sempre secondo la tesi investigativa, anche la giovane amante, la marocchina Touss Ibtissam Touss, faceva parte della polizza sulla vita di Iannicelli.

Il messaggio che gran parte degli organi d’informazione hanno veicolato poggia sulla convinzione che la ‘ndrangheta, pur di uccidere Iannicelli, abbia violato il suo codice d’onore massacrando anche un bimbo di tre anni e una giovanissima immigrata. Baggianate. Intanto, perché la più potente organizzazione criminale d’Europa non ha mai avuto un codice d’ onore e nemmeno considerato donne e bambini sacri e intoccabili. Nella storia criminale dei clan troviamo tantissime pagine macchiate del sangue innocente di donne e bambini: massacrati a colpi di arma da fuoco, in centri rurali e in ambienti urbani. Bambini trucidati a letto con la mamma, ragazze cadute mentre erano in compagnia di germani e crivellati a colpi di lupara, adolescenti di entrambi i sessi morti accanto al cadavere dei genitori abbattuti nel corso dello stesso agguato.  Le bestie non hanno un codice d’onore, solo spirito di conservazione, istinto omicida, sentimenti di barbarie.

Quella di Cocò Campolongo è una delle tante famiglie dedita allo spaccio di droga. Per quest’attività, al momento dell’agguato e del vilipendio dei cadaveri dati alle fiamme nell’auto diventata la loro tomba, il papà, la mamma, la nonna, la zia e chissà quale altro parente del bimbo, erano ospiti delle patrie galere in quanto indagati per reati di droga.

Gli arrestati, di 38 e 39 anni, che Cocò conosceva come “Topo” e “Panzetta” – sempre secondo l’indagine di polizia giudiziaria – frequentavano la casa del nonno per via di un intreccio di situazioni amorose e d’interessi nel settore   del traffico di sostanze stupefacenti. Uno dei due si era sposato (matrimonio non consumato) con la giovane marocchina, amante di Iannicelli, diventando così lo strumento per fare acquisire la cittadinanza italiana alla giovane marocchina.

Altro particolare di questo quadro è il fidanzamento della figlia dell’altro arrestato per la strage – episodio che anche il Papa ha condannato nel corso della sua visita a Cassano, dove, durante la messa, ha scomunicato tutti gli appartenenti alla ‘ndrangheta-  con il primogenito di Iannicelli.  Quasi una famiglia allargata, in cui il familismo amorale è durato fino a quando non sono subentrati interessi superiori riconducibili all’attentato al prestigio dei vertici della cosca egemone.

In questo reticolo di frequentazioni chissà quante volte l’innocenza di Cocò sia venuta a contatto con “Topo” e “Panzetta”, accusati di concorso nella strage del 16 gennaio 2014.

Ribadiamo: Cocò si sarebbe potuto salvare? Se non fosse stato affidato al nonno materno probabilmente sì.  Come tutti i nonni anche Giuseppe Iannicelli stravedeva per il nipotino. Ma questo, sicuramente, non era un titolo, socio-giuridico, per mettere il bambino nelle mani di un uomo socialmente e moralmente discutibile, nonché pericoloso per la sua caratura criminale.

A Cassano allo Ionio, che non è certo Milano, tutti si conoscono e la notorietà di Iannicelli non poteva sfuggire ad assistenti sociali, carabinieri, vigili urbani e a quant’altri hanno preso parte all’istruttoria che ha portato all’affidamento del bambino al nonno. Ma c’è di più. Viene ipotizzato che l’uomo avesse manifestato l’intenzione di pentirsi e di collaborare con la magistratura. Se ciò dovesse risultare vero, allora altre e più gravi responsabilità toccano gli apparati statali che hanno consentito a Giuseppe Iannicelli, il quale –  per il semplice dubbio di saltare o meno il fosso –  lo aveva trasformato in morto che cammina. Quanto scritto fin qui rientra nel diritto di cronaca e di critica, così come garantito dalla Costituzione repubblicana.

Antonio Latella – Giornalista e sociologo (Presidente del dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)

 


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