GLOBALIZZAZIONE, MERCATI,CAPITALISMO FINANZIARIO E NUOVE POVERTA’

FOTO LATELLA GENNAIO 2015Crisi economica, disoccupazione, precariato, delocalizzazione, flessibilità, esternalizzazione, contrazione dei consumi, taglio agli interventi statali fanno parte del pesante fardello della società postindustriale. Milioni di persone, da un giorno all’altro, rimangono ingabbiati nel recinto delle nuove povertà che, unite a quelle storiche, trasformano gli esseri umani in scarti da conferire nelle grandi discariche sociali. La povertà ha subito grandi cambiamenti in una società strutturalmente globalizzata in cui l’attuale sistema capitalistico sfrutta le risorse umane, strutturali ed economiche di un territorio per poi andare alla conquista di terre vergini. Le borse, la finanza, le banche, la concentrazione di risorse nelle mani di pochi gruppi imprenditoriali, in nome del profitto, hanno il potere di vita e di morte delle nostre comunità e di conseguenza di milioni di esseri umani.

La società contemporanea è alle prese con un cambiamento storico che l’ha resa “orfana” di quelle classi sociali descritte da Karl Marx e da Max Weber. In particolare quella media, risucchiata dal vortice delle nuove povertà, mentre non esiste più quel sottile confine tra poveri e indigenti. Il mondo è alle prese con una nuova mega-macchina sociale, il “Finanzcapitalismo” (omonima opera del prof. Luciano Gallino), che ha preso il posto del capitalismo industriale, “sistema che aveva come motore l’industria manifatturiera”, cambiando strategia nell’accumulazione di capitale. “Il finanzcapitalismo – scrive l’eminente sociologo – è una mega-macchina creata con lo scopo di massificare il valore estraibile sia dagli esseri umani sia dagli ecosistemi. La grave crisi economica (ma anche culturale e politica) che stiamo vivendo è la crisi di questa civiltà-mondo dominata dal sistema finanziario”. E il ruolo della politica? Lo spiega lo stesso prof. Gallino – sempre nel “Finanzcapitalismo” -. “La mega- macchina del finanzcapitalismo è giunta ad asservire ai propri scopi di estrazione del valore ogni aspetto come ogni angolo del mondo contemporaneo. Un simile successo non è dovuto a un’economia che con le sue innovazioni ha travolto la politica, bensì a una politica che ha identificato i propri fini con quelli dell’economia finanziaria, adoperandosi con ogni mezzo per favorire la sua ascesa. In tal modo la politica ha abdicato al proprio compito storico di incivilire, governando l’economia, la convivenza umana. Ma non si è limitata a questo. Ha contribuito a trasformare il finanzcapitalismo nel sistema politico dominante a livello mondiale, capace di unificare le civiltà preesistenti in una sola civiltà-mondo, e al tempo stesso di svuotare di sostanza il processo democratico”.

Recenti proiezioni della Banca Mondiale evidenziano che entro fine anno le persone che vivono in situazioni di estrema povertà scenderanno sotto il 10% e che da 902 milioni (dato riferito al 2012) si passerà a 702 milioni. Nel bacino della povertà estrema troviamo persone che vivono con 1,90 dollari al giorno al posto del precedente 1,25. Questi dati, la cui validità scientifica, assolutamente, non la mettiamo in dubbio, ci riportano al pollo di Trilussa e alla sua poetica dell’inganno delle medie statistiche.
La riduzione di questa povertà – come sostiene in una recente intervista rilasciata dal giornalista britannico Matthew White Ridley al Corriere della Sera -“viene dall’innovazione, dal commercio, dalla tecnologia, dalla disponibilità di energia. E dal fatto che le persone lavorano l’una con l’altra, che non siamo più in un mondo di autosufficienza. Se si lascia che si sviluppi un’economia della condivisione, hai un effetto straordinario sulla riduzione della povertà”. Una riduzione avvenuta per effetto del bottom-up (processo dal basso).

Ma l’aumento della ricchezza – scrive Angus Deaton ne “La Grande fuga” –  ha portato con se “un aumento delle diseguaglianze, mentre non riusciamo  a utilizzare l’enorme ricchezza prodotto per cancellare la povertà”.
Il mondo post industriale, regolato dalla subalternità della politica al capitalismo finanziario, scandisce i suoi ritmi con le tecnologie informatiche e telematiche che hanno cambiato il mondo della produzione il cui paradigma non si basa più sulle merci ma sulle idee. E ciò aumenta le ineguaglianze, anzi ne crea di nuove.
Postindustriale è sinonimo di deindustrializzazione. Il sistema produttivo, infatti, utilizza il capitale intellettuale che ha preso il posto di quello fisico, provocando così una grande trasformazione sociale ed economica. Questa rivoluzione ci consegna le città post industriali: aree che sono state il paradigma dell’organizzazione del lavoro e della produzione di massa. Territori spettrali resi poveri dalla delocalizzazione degli impianti: storiche fabbriche che nel giro di qualche decennio si sono trasformate in archeologia industriale. Il mercato del lavoro è radicalmente cambiato e, soprattutto, non concede chance a quanti continuano a ingrossare il bacino dei rottamati, la cui specializzazione non è più richiesta dall’attuale sistema produttivo che si rivolge ad altre tipologie di lavoratori. Nelle città post industriali si sono accentuate le diseguaglianze, soprattutto, “nella distribuzione dei redditi, in quanto si trovano a coesistere nella stessa area geografica, da un lato, professionisti qualificati e manager e, dall’altro, disoccupati e lavoratori scarsamente remunerati che stentano a trovare un’occupazione nei nuovi settori di crescita della nuova realtà urbana” (Enciclopedia delle Scienze Sociali Treccani).

Le povertà del XXI secolo, che quotidianamente tocchiamo con mano anche attraverso la pervasività dei media, non riguardano solo chi vive di elemosina o dorme per strada; chi sgomita per mettersi in fila davanti ai cancelli di una mensa parrocchiale o di un’associazione laica per un pasto caldo; chi frequenta i centri di smistamento di abiti usati per una giacca, un paio di pantaloni o di scarpe; chi la sera attende l’apertura di un dormitorio. Poveri non sono solo quanti sbarcano sulle nostre coste e si affidano ai centri di accoglienza statale e alla solidarietà della Caritas prima di raggiungere la loro terra promessa.
La povertà è un fenomeno che riguarda anche quanti faticano ad arrivare alla terza settimana del mese; le famiglie che non possono comprare i libri (a volte neanche quelli usati), pagare la retta della mensa o la gita scolastica dei figli; affrontare un’emergenza sanitaria, il guasto della vecchia autovettura, la rottura di un tubo del bagno di casa. La povertà non ha confini e riguarda tanto le società sottosviluppate quanto quelle del cosiddetto modello occidentale.
In Italia sono oltre nove milioni le persone alle prese con una situazione di povertà relativa: famiglie con un reddito tra i seicento e meno di mille euro mensili; oltre quattro milioni, invece, sono gli italiani che vivono in una condizione di povertà assoluta. Spetta al Mezzogiorno il primato: il 41% della popolazione è povera, con la Calabria ultima in assoluto. La scomposizione del dato ci mette di fronte alla drammatica situazione della disoccupazione giovanile e femminile.
Con l’attuale crisi, che dura ormai da otto anni, sono comparse nuove forme di povertà: strutturalmente diverse da quelle del passato. La società dei consumatori ha soppiantato quella dei produttori. Nella prima la produzione non richiede grandi quantità di forza lavoro e i poveri, che un tempo venivano considerati appartenenti all’esercito industriale di riserva, diventano dei sotto consumatori. A milioni di cittadini viene così negata una funzione sociale. Una situazione, questa, che limita le prospettive di riscatto. La società dei consumi porta alla mercificazione del lavoro. “Il trasferimento al mercato del compito di rimercificare il lavoro è il significato più profondo della conversione dello Stato al culto della deregolamentazione e della privatizzazione” … “Il mercato del lavoro è soltanto uno dei tanti mercati di beni di consumo in cui è inscritta la vita individuale, e il prezzo del lavoro è soltanto uno dei prezzi di mercato da seguire, osservare e calcolare nell’ambito delle tante attività dell’esistenza individuale” (Zygmunt Bauman in “Consumo dunque sono”). E in una società che vive per il consumo tutto si trasforma in merce. E dove “il mercato è abbandonato alla sua auto normalità esso conosce soltanto la dignità della cosa e non della persona, non doveri di fratellanza e di pietà, non relazioni umane originarie di cui le comunità originarie siano creatrici” (Max Weber).

Per decenni, il mondo occidentale si è illuso di aver superato le difficoltà precedenti e immediatamente successive al secondo conflitto mondiale. Invece la povertà non è mai stata sconfitta.
Nel periodo postbellico e del ritorno alla democrazia nei paesi dell’Europa Occidentale – dove venne sancito un tacito accordo fra capitale e lavoro- il sistema produttivo poggiava sulle fondamenta del lavoro industriale e del welfare state. Un sistema la cui funzionalità era assicurata dall’etica del lavoro che garantiva, da un lato, l’affermazione dell’apparato produttivo e, dall’altro, la possibilità di avanzamento dei lavoratori nella organizzazione gerarchica dell’apparato aziendale. Era questa la società dei produttori.
Come fa notare Chiara Saraceno ne “Il Lavoro non basta” – “La povertà in Europa negli anni della crisi” ( edizione Feltrinelli) “ dopo decenni in cui si pensava che il progresso e lo sviluppo post bellici, assieme ai sistemi di welfare state messi a punto nei ‘gloriosi trenta’ avrebbero spazzato via non solo la povertà prodotta dalle distruzioni della guerra, ma anche quella più antica, legata allo scarso sviluppo e alla mancanza di diritti sociali, da diversi anni ormai le evidenze empiriche mostravano che la povertà cambiava, in parte, forme e cause. Ma rimaneva un dato, appunto, strutturale, accompagnandosi a livelli di disuguaglianza crescenti, anche se con intensità diversa nei vari paesi”.
La stessa Saraceno, nella pubblicazione appena citata, analizzando le crisi degli anni Settanta (iniziando da quella petrolifera) sottolinea che i “paesi del capitalismo democratico non solo non sono riusciti a sradicare la povertà, ma ne hanno prodotta di nuova, mentre contemporaneamente si allargavano le simmetrie con i paesi più poveri”. E riprende il concetto espresso nella metà degli anni Novanta dello scorso secolo da Robert Castel sulla “crisi della società salariale”.
“Proprio quel lavoro salariato – scrive ancora la sociologa milanese – che era stato speranza di riscatto di masse della popolazione, garantendo l’accesso a un reddito regolare e a forme di protezione sociale, appariva sempre meno sicuro, oltre che meno capace di fornire forme di identificazione individuali e collettive ad ampie porzioni di lavoratori manuali e impiegatizi a bassa qualifica”.

Torniamo per un attimo ai “Trente glorieuses” (cioè dalla fine degli anni quaranta alla fine anni settanta del Novecento) e alla nostalgia per quell’epoca – come evidenzia Thomas Piketty nel suo libro “Il capitale del XXI secolo” – “vissuta in Europa occidentale e in particolare in Francia” . A quel periodo di trent’anni, “In cui la crescita è stata eccezionalmente forte. Non è sempre chiaro – si legge – quale cattivo genio ci abbia imposto, dalla fine degli anni settanta all’inizio degli anni ottanta, una crescita così debole. Ancora oggi, spesso non riusciamo a immaginare come la brutta parentesi dei ‘trenta gloriosi’ i quali, in verità, saranno tra non molto trentacinque o quaranta, possa finalmente chiudersi, come il brutto sogno possa finalmente terminare e tutto possa riprendere come prima”. In questa parte del libro, Piketty si sofferma “sui destini incrociati tra le due sponde dell’Atlantico”. Seguiamo il suo ragionamento: “Di fatto, se rimettiamo le cose nella giusta prospettiva storica, appare chiaro che, in realtà, è stato proprio il periodo dei Trente glorieuses a rappresentare un’eccezione, per il semplice fatto che l’Europa aveva accumulato nel corso degli anni 1914 -45 un enorme ritardo rispetto agli Stati Uniti; ritardo che venne appunto colmato a tutta velocità nel corso di quel periodo” (i trenta gloriosi). “Una volta avvenuto il riaggancio, l’Europa e gli Stati Uniti si sono ritrovati insieme – scrive ancora Piketty – a gestire il futuro del mondo e si sono messi a crescere allo stesso ritmo, che è stato ed è tutt’ora, un ritmo strutturalmente lento”. E se la nostalgia riguarda l’Europa, in America del Nord questo sentimento non esiste, semplicemente perché i “trenta gloriosi” non sono esistiti in quanto la produzione pro capite (1820 -2012) è cresciuta, più o meno allo stesso ritmo (1,5-2% l’anno).
Forse ci si è illusi di aver scoperto una miniera non solo in grado di garantire il benessere sino a quel punto raggiunto, ma anche lo strumento per ulteriori miglioramenti sociali ed economici. Il potere pubblico e la politica forti del benessere di quegli anni sono rimasti fermi facendosi avvolgere della spirale della corruzione, del clientelismo: finalizzati ad ottenere il consenso o mantenere quello già in possesso. Il capitalismo invece, come un fiume carsico, è andato avanti sfruttando il sistema della globalizzazione e le nuove tecnologie della comunicazione che hanno dato vita all’universalismo del mercato e a nuove forme di competitività.

“La globalizzazione dei mercati – scrive il prof. Luciano Gallino in “Globalizzazione e diseguaglianze”- ha spinto in tutto il mondo le imprese a perseguire con rinnovata determinazione due obiettivi che per certi aspetti sono insiti fin dalle origini nella natura stessa dell’impresa capitalistica: utilizzare la minor quantità possibile di forza lavoro per unità di prodotto, ovvero accrescere senza posa la produttività del lavoro; e acquistare esclusivamente in ogni momento – il che vuol dire in molti casi ogni giorno – la quantità di forza lavoro necessaria per soddisfare la domanda a breve termine”. I primi sintomi sarebbero stati sottovalutati, poi i governi hanno tentato di correre ai ripari con interventi legislativi che introducevano nel mercato del lavoro nuovi contratti a tempo determinato, con scarsa sicurezza occupazionale e, soprattutto, portatrici di incertezze future. E gli stessi ammortizzatori, pur di non entrare in contrasto con i principi liberistici, assunti in misura decrescente hanno caricato gli stati di un alto costo sociale.
“Nell’affannosa ricerca che i governi dell’Unione europea (Luciano Gallino ne “Il colpo di stato di banche e governi”) compiono al fine di allargare il più possibile gli strati di popolazione severamente chiamati, dal 2010 in avanti, a pagare una crisi di cui non recano alcuna responsabilità, uno dei bersagli preferiti è lo stato sociale, in quella specifica forma che fin dal dopoguerra è stata chiamata modello sociale europeo”.

E la guerra allo stato sociale, giustificata dall’eccessivo debito pubblico degli stati nazionali, soprattutto in Italia, sta imponendo grandi sacrifici ai cittadini che, da un giorno all’altro, in nome della dittatura dell’UE (unione di stati legati dalla finanza e non già dalla politica), vedono cancellati diritti acquisiti nel corso di mezzo secolo di lotte. Tra i feriti di questa guerra troviamo anche le organizzazioni dei lavoratori i quali, anche per errori propri, stanno scivolando nel baratro del post sindacalismo.
E mentre da più parti si parla di “imbroglio liberista” si auspica il ritorno al mercato orientato alla società, come fa Edmondo Berselli (nel suo libro l’Economia giusta) il quale conclude la pubblicazione con la convinzione che “dovremo adattarci ad avere meno risorse. Meno soldi in tasca. Essere più poveri. Ecco la parola maledetta: povertà. Ma – scrive – dovremo farci l’abitudine. Se il mondo occidentale andrà più piano, anche tutti gli altri dovranno rallentare: Proviamoci, con un po’ di storia alle spalle, con un po’ d’intelligenza e d’umanità davanti”.
Perché – come scrive Bauman nel suo “Lavoro, consumismo e nuove povertà” -:
“Una cosa è essere poveri in una società fondata sul lavoro con un regime di piena occupazione e una cosa è essere poveri in una società in cui le identità individuali e i progetti di vita si costruiscono più a partire dei consumi che dal lavoro e dai profili professionale”. Ne consegue che “nella società dei consumi, la produzione in serie non richiede una massiccia quantità di forza lavoro e i poveri, che – come detto -un tempo costituivano l’esercito industriale di riserva, diventano dei sotto consumatori”.

Antonio Latella – giornalista e sociologo (Presidente Dipartimento Calabria dell’Associazione Nazionale Sociologi)

Bibliografia
*Luciano Gallino – “Finanzcapitalismo”
*Enciclopedia Sociale Treccani
*Zigmunt Bauman – “Consumo dunque sono
*Chiara Saraceno – “Il Lavoro non basta, la povertà in Europa negli anni della crisi”
*Thomas Piketty – “Il capitale del XXI secolo”
*Corriere della Sera
*Luciano Gallino – “Globalizzazione e diseguaglianze”
*Zygmunt Bauman – “Lavoro, consumismo e nuove povertà”
*Luciano Gallino – “Colpo di stato di Banche e di governi”
*Edmondo Berselli – “L’economia Giusta”
*Max Weber – “Economia e società”

*Angus Deaton – “La grande fuga”


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